venerdì 26 febbraio 2016

LA CARNE DI CAVALLO


La storia ci conferma che la carne equina è sempre stata utilizzata dall'uomo come alimento, al di là delle considerazioni di ordine morale.

Oggi la carne di cavallo è molto apprezzata in tutta Europa, in Sud America e in Asia orientale - è anche stata utilizzata da chef di sushi in Giappone come un sostituto per il tonno rosso Otoro.

La carne equina è povera di grassi, praticamente priva di colesterolo e contiene grandi quantità di ferro in forma assimilabile dal nostro organismo, al contrario di quello contenuto negli spinaci.

Queste caratteristiche la rendono ideale nelle diete dimagranti, per chi soffra di colesterolo alto o di pressione bassa.

Il grasso presente nella carne equina è facilmente individuabile ed asportabile in quanto si tratta di grasso di copertura, di colore giallo nel cavallo adulto e di colore bianco in quello giovane, e viene generalmente eliminato durante le fasi di lavorazione della carne.

La scarsità di grassi rende la carne facilmente digeribile e quindi adatta a tutti, anziani, bambini e convalescenti, inoltre l'alta percentuale di ferro presente, circa 3,9 mg per 100 grammi, ne consiglia l'uso alle persone anemiche, alle donne in gravidanza e ai bambini in crescita, di contro c'è un marginale fattore estetico che, proprio per la presenza del ferro, rende la carne, una volta tagliata, particolarmente scura per colpa dell'ossidazione.



La carne di cavallo contiene anche un'alta percentuale di proteine, indispensabili per lo sviluppo muscolare dei bambini e per gli sportivi inoltre, essendo una delle poche carni che contengono zuccheri (glicogeno), il suo consumo è consigliato anche per gli sportivi che necessitano di alimenti la cui frazione energetica sia rapidamente disponibile.
E' proprio da questi zuccheri che la carne equina ottiene quel sapore lievemente dolce che la rende così appetitosa.

Infine nella carne di cavallo è presente acido lattico in quantità doppia o tripla rispetto alle altre carni, il che costituisce una difesa naturale contro i batteri.

In Sicilia il consumo della carne equina è tradizionale, al punto che a Catania esiste un quartiere dove le macellerie servono esclusivamente carne equina e alcune di loro hanno una piccola taverna acclusa dove preparano piatti a base di questo alimento.

La carne di cavallo ha un sapore dolciastro, a metà tra la carne di manzo e la selvaggina, e va cucinata poco (spesso, infatti, si mangia cruda come carpaccio o come tartare) per fare in modo che mantenga inalterate la sua tenerezza.

In effetti in Italia la carne di cavallo non è molto diffusa tranne che in alcune regioni: Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia, Puglia, Sicilia e Sardegna, dove esistono molte ricette tipiche e molte macellerie equine specializzate nella macellazione del cavallo.


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giovedì 25 febbraio 2016

IL COCCODRILLO



Si chiama Crocoburger, e il suo ingrediente “forte” è la carne di coccodrillo, ultima sorpresa del “food globale” che si trovava - e si mangiava - fra i padiglione di Expo Milano 2015.

La carne arriva direttamente dal Paese africano, da allevamenti controllati che si trovano nelle vicinanze del lago Kariba, e vengono macellate al terzo anno d'età del coccodrillo in modo da farle rimanere tenere e gustose. Colore è chiaro, sapore dolciastro simile al pollo: sino ad oggi lo Zimbabwe ne ha importate una tonnellata. Il Crocoburger è servito assieme a con formaggio filante, patate al forno cotte con farina di baobab ed una bibita gassata che unisce il sapore dell'uva rossa al frutto di baobab e ai fiori di sambuco.

"In tutto il mondo si mangia il coccodrillo - spiega Georges El Badaoui, console dello Zimbabwe a Milano - e anche in Europa è considerato un cibo appetitoso e prelibato.

Le sue carni sono molto proteiche, magre, con pochissimo colesterolo e ricche di Omega 3, 6, e 9, insomma l'ideale per una dieta sana e corretta. L'Italia è l'unico Paese dell'UE in cui non si mangia ancora carne di coccodrillo. Grazie a Expo abbiamo potuto finalmente far provare questa nostra specialità. Abbiamo già immaginato alcuni piatti: pasta al ragù di coccodrillo con cipolla di tropea, pomodoro pachino, pesto al basilico ligure dop con aglio di vessalico e coccodrillo: un mix che nasce dal meglio delle due cucine".

"Quella di coccodrillo è la carne bianca con i più bassi livelli di grasso, meno del pollo e del pesce - ha spiegato il direttore del padiglione Zimbabwe, Nicholas Moyo -. Si può cuocere in vari modi, fritta, o alla brace come una bistecca. Qui abbiamo optato per l'hamburger. Non avendo un ristorante in cui ci si può sedere, quella dello street food ci è sembrata la formula più comoda".

Proprietà nutrizionali riferiti a 90 grammi di prodotto:

186 calorie
5 grammi di grassi
30 grammi di proteine
E’ difficile pensare alla carne di coccodrillo come una carne appetibile a causa del suo aspetto poco rassicurante, ma sappiate che la carne di coccodrillo è molto diffusa nei paesi dove vive e quindi Asia e Africa. Nutrizionalmente la carne di coccodrillo ha un sapore molto simile ad un incrocio tra pollo e granchio.



Una porzione di 90 grammi è in grado di fornire un enorme quantità di proteine circa 30 grammi che sono il 30%.

Non c’è nessuna carne che ha un valore simile, solo il parmigiano che però contiene molti grassi. Il coccodrillo ha un alto contenuto di potassio, ferro e vitamina B-12. La pelle del coccodrillo è ricca di pectina, che è efficace nella prevenzione e nel trattamento dell'osteoporosi. La Carne di coccodrillo ha anche un basso contenuto di colesterolo e di sodio ed è relativamente povera di grassi ed è una delle fonti proteiche più potenti in circolazione.

Tanto crescente è la fama del coccodrillo come carne dalle proprietà salvifiche che in Australia, nella provincia di Brisbane, sono sorti numerosi allevamenti e si sono ingranditi quelli che già lavoravano per la produzione del pellame in modo da esportare verso la Cina e soprattutto verso Taiwan.

Ma al di là della medicina cinese, il coccodrillo da allevamento è meno grasso, contiene meno calorie e più proteine di tutte le carni comunemente in commercio come pollo, maiale e anche il pesce. E non è solo una questione di grasso: il coccodrillo ha pochissimi acidi grassi saturati (causa dell’aumento del colesterolo nel metabolismo umano) e molti acidi grassi monoinsaturi (che agiscono invece come riduttori del colesterolo).

Il sapore non è affatto spiccato, la carne bianca somiglia a quella del pollo da vedersi ma ha la consistenza della coda di rospo e anche il gusto gli somiglia.





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mercoledì 24 febbraio 2016

DANUBIO BLU



L'origine del Danubio blu è piuttosto oscura. L'ipotesi più accreditata afferma che il cocktail è una variante del Blue Lagoon nata in Italia fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Il cocktail, noto quasi esclusivamente in Italia, è diventato celebre a partire dagli anni novanta, periodo in cui i clienti delle discoteche hanno iniziato, dato l'elevato tenore alcolico, a richiederlo.

Non essendoci una codifica ufficiale esistono diverse versioni di questo cocktail, alcune prevedono l'uso della Vodka (anche aromatizzata), altre del rum. L'unica certezza è l'inconfondibile colore blu donato dal blue curaçao.




Le quantità sono da intendersi per 4 persone.

Versate i liquori nel mixer, colmate sino all’orlo con spumante ghiacciato e servite nei bicchieri alti.
1 Bottiglia di Vino Spumante Brut 1 Cucchiaio di Cointreau 3/3 Vodka 1 Cucchiaino di Vermouth Chinato.





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lunedì 22 febbraio 2016

IL GIN



Il sostantivo "gin" deriva dal francese "genièvre" e/o dall'olandese "jenever" e/o dall'italiano "ginepro".
La vera scoperta del gin è attribuibile a Franciscus Sylvius, medico olandese, che nel XVII secolo d.C. tentò di formulare una cura per i soldati colonizzanti le indie. Verso il termine del '600 la sua produzione caratterizzò maggiormente il Regno Unito, in seguito all'intervento protezionistico di Guglielmo III di Orange. Per un lungo periodo, il gin rappresentò una vera e propria moneta di scambio; fu così responsabile di una certa decadenza sociale (alcolismo e povertà).

L'origine del gin sembra legata al professor Frabciscus De La Boe, docente di medicina e fisica a Leyden, in Olanda, nel 1600. Conoscendo ed apprezzando le proprietà degli olii essenziali del ginepro, ridistillò un'infusione di queste bacche macerate in alcol puro ed ottenne un olio terapeutico a basso prezzo che chiamò Genever.
Fu scoperto ed usato poi anche dai soldati inglesi di ritorno dai Paesi Bassi. In Inghilterra prima di diventare una bevanda molto conosciuta venne adoperato come medicinale. Negli anni venti del 1700 fu stimato che un quarto delle abitazioni di Londra producesse o vendesse gin. L'ubriachezza di massa negli anni divenne un serio problema e nemmeno la legge detta “Gin Act” del 1736 che limitava le mescite ed impose una forte tassa sul distillato, riuscì a limitare la produzione ed il consumo di gin. Dopo l'abolizione del “Gin Act”, il gin venne sottoposto al controllo fiscale e questo creò competizione tra i produttori tanto da migliorare la produzione e la qualità del distillato.

Partendo da una base alcolica ottenuta distillando cerali o granturco, si fanno macerare le bacche di ginepro e gli altri ingredienti. Si distilla poi di nuovo l'alcol con le erbe botaniche macerate e si ottiene il gin. Con questo metodo si produce il London Dry gin che è la tipologia più consumata.

Il gin è un distillato forte, chiaro, tipicamente incolore prodotto dalla distillazione di un fermentato ottenuto da frumento ed orzo in cui viene messa a macerare una miscela di erbe, spezie, piante e radici: i botanicals. Tra queste sono presenti bacche di ginepro che caratterizzano il profumo e il gusto. Il nome del distillato deriva dal nome delle piante di ginepro che producono le bacche.

Le bacche di ginepro danno al distillato un tipico profumo e sapore facilmente riconoscibile.

Il gin è una bevanda alcolica tra le più conosciute, utilizzate e commercializzate al mondo. L'elevata gradazione alcolica, che per legge non dev'essere inferiore al 37,5% Vol., lo classifica tra i prodotti superalcolici.
Il gin è un distillato a base di frumento e orzo fermentati ed aromatizzati al ginepro (nomenclatura binomiale Juniperus communis). Per la prima volta venne formulato grezzamente in epoca medievale, a scopo medico e curativo. Oggi, il gin è distribuito in diverse tipologie, con provenienze variabili e aventi caratteristiche organolettico-gustative piuttosto eterogenee.

Nonostante si siano differenziati molti tipi di gin, secondo la legislazione corrente dell'Unione Europea possono essere tutti raggruppati in quattro categorie
Bevande alcoliche aromatizzate al ginepro: caratterizzate da fermentazione di moderata intensità e successiva distillazione con gli aromi per estrarne gli aromi. Hanno un minimo del 30% ABV (Alchol By Volume - volume in alcol o "vol.") e possono essere commercializzati anche sotto il nome di Wacholder o Genebra.
Gin: sono bevande alcoliche aromatizzate NON prodotte per ridistillazione degli aromi, bensì con l'aggiunta di sostanze aromatizzanti naturali ad alcol neutro di origine agricola. Il sapore predominante deve essere di ginepro.
Gin distillato: viene prodotto solo mediante ridistillazione di alcol etilico di origine agricola, inizialmente concentrato al 96% (azeotropo di acqua ed etanolo) utilizzando gli alambicchi TRADIZIONALI; vengono impiegate bacche di ginepro e altri aromi naturali, purché il primo sia predominante. Se prodotto aggiungendo solo essenze e aromi all'alcol di origine agricola NON è gin distillato.
London Gin: è ottenuto da alcol etilico di origine agricola con un tenore massimo di metanolo di 5g per ettolitro a 100% ABV; l'aroma è conferito esclusivamente per ridistillazione di alcol etilico mediante alambicchi tradizionali, in presenza di tutti gli aromi naturali. Il distillato finale deve avere almeno 70% ABV e non può contenere più di 0,1g di zuccheri aggiunti per litro di prodotto, né coloranti, né altri ingredienti aggiuntivi che non siano acqua. E' anche detto "Dry London Gin".
All'interno dell'Unione Europea, il tasso alcolico minimo nelle varie bottiglie di gin (gin, gin distillato e London Gin) è di 37,5% ABV.
Negli Stati Uniti d'America il gin è definito come bevanda alcolica con almeno il 40% ABV (80 proof) dal tipico sapore di ginepro; il gin prodotto solo con distillazione o ridistillazione, in presenza di aromi con lavaggio alcolico, può essere ulteriormente differenziato e commercializzato col nome di "gin distillato".
Altre classificazioni legali distinguono i gin in base all'area geografica di provenienza, senza ulteriori caratterizzazioni (ad es. Plymouth gin, Ostfriesischer Korngenever, Slovenská Borovicka, Kraški Brinjevec, ecc.); non mancano i riferimenti agli stili classici, che sono culturalmente riconosciuti ma non legalmente definiti (ad es. gin, Wacholder e Old Tom gin).



Dalle sue origini, sono molti i metodi di produzione che si sono distaccati rispetto al processo tradizionale; per lo più, questi si avvalgono di tecniche moderne finalizzate alla distillazione e all'aromatizzazione della bevanda.
Come risultato di questa evoluzione, i gin possono essere classificati in tre tipologie di lavorazione:
Pot Distilled Gin: è il primo stile di gin e viene ottenuto mediante distillazione di mosto fermentato di: frumento o orzo o (in minor parte) da altri cereali; questo "vino di malto" è poi ridistillato con gli aromi vegetali. In tal modo si può anche produrre un doppio gin, ovvero un gin ridistillato due volte con gli aromi. Per mezzo degli alambicchi tradizionali, la gradazione alcolica rimane piuttosto elevata (circa 68% ABV per un gin singolo e 76% ABV per un doppio gin). Questi gin sono spesso invecchiati in botti di legno che esaltano il gusto del malto, rendendoli più somiglianti ad un whisky. Kornwijn e Ginevra Gin sono i più importanti della categoria.
Column Distilled Gin: è nata con l'invenzione dello stile Coffey; si esegue con una prima distillazione ad elevata gradazione alcolica (96% ABV) di alcol neutro da mosto fermentato, che sfrutta il reflusso di risucchio di una apposita colonna. La base fermentativa per l'alcol può essere di cereali, barbabietole da zucchero, uva, patate, canna da zucchero, zucchero ecc. (purché di derivazione agricola). L'alcol (molto concentrato) viene poi distillato con bacche di ginepro ed altri aromi naturali in un altro strumento. Molto spesso, invece che essere immerse, tutte le componenti aromatiche vengono collocate in un canestro sospeso ed esposto al flusso del vapore alcolico che ne estrae tutti gli aromi; ciò determina un gin molto più leggero e delicato che diverrà Gin Distillato o Dry London Gin in base alla composizione alcolica finale.
Compound gin: si tratta di una semplice aromatizzazione di alcol neutro con essenze o altri aromi naturali, senza ridistillazione; pertanto, non è considerato un gin distillato.
Molti aromi per gin contengono sentori di agrumi, come il limone e la buccia d'arancio amaro, combinazione di altre spezie, come: anice, radice e semi di angelica, radice di giaggiolo, radice di liquirizia, cannella, mandorla, cubeb, scorza di lime, buccia di pompelmo, litchi, zafferano, baobab, incenso, coriandolo, grani del paradiso, noce moscata, corteccia di cassia e/o molti altri.

Il gin è un ingrediente parecchio utilizzato nella composizione di certi cocktail; alcuni esempi sono: Gin Tonic, Gin Fizz, Gin Old Fashioned ecc. Il consumo come distillato puro è (oggi) quantitativamente meno importante.

Secondo la società di ricerche di mercato "International Wine & Spirit Research (Iwsr)", a livello mondiale ed in epoca contemporanea, i maggiori consumatori di gin sono i Filippini, nella città di Manila. Per di più, scrutando un rapporto pubblicato da "The Economist", utilizzando i dati provenienti da "IWSR" (sede nel Regno Unito), pare che mediamente un filippino consumi circa 1.4 litri di gin all'anno. Il mercato globale del gin vende circa 440 milioni di litri all'anno.

Gli Stati Uniti e la Spagna sembrano avere un mercato poco inferiore a quello filippino ma, in termini di consumo unitario, slovacchi e olandesi seguono a ruota gli orientali con un consumo annuo di 1,2 litri e 0,8 litri l'anno.
Il più grosso produttore mondiale di gin è "Ginebra San Miguel", che non a caso risiede nelle Filippine dal 1830. In definitiva, le Filippine detengono il più grande mercato di gin a livello mondiale, ovvero circa il 50% delle vendite globali.
Il gin contribuisce, assieme alla agli altri alcolici, al progressivo incremento di consumo di alcol etilico nel Regno Unito.
Da punto di vista globale, il gin rappresenta circa lo 0,44% del consumo totale di alcolici.




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domenica 21 febbraio 2016

ALEXANDER




L'Alexander è un cocktail che compare già nelle prime guide di inizio '900, ma proprio per questo vi sono molte ipotesi legate all'origine di questo drink.
I primi ricettari che certificano la preparazione di un cocktail denominato "Alexander" sono il "Jack's Manual" scritto da J. A. Grohusko nel 1910, e il "Straub's manual of mixed drinks" del 1913, ma la ricetta, totalmente differente, prevedeva l'uso di rye whiskey e Bénédictine. La ricetta attuale denominata con il nome corrente compare la prima volta nel testo "New bartender's guide" redatto da Charles S. Mahoney e Harry Montague nel 1914.
Una leggenda, meno accreditata, afferma che il cocktail fu creato da Troy Alexander, barista del ristorante Rector's di New York agli inizi del '900, per festeggiare il successo della campagna pubblicitaria della Delaware, Lackawanna and Western Railroad: basandosi sul vestito bianco della mascotte, Phoebe Snow, creò un cocktail basato sulla crema di latte. Parallelamente, in Inghilterra, fu creato un cocktail simile, ma denominato diversamente: creato a Londra nel 1922 da Henry Mc Elhone al "Ciro's Club", il cocktail fu dedicato al matrimonio fra la principessa Mary e il conte Henry Lascelles.

L'alexander, date le molteplici origini, viene chiamato anche Gin Alexander, Princess Mary e Panamà (quest'ultimo nome erroneamente in quanto indica un Brandy Alexander o la variante col rum). L'origine del nome "Alexander" è incerta:
dedicato ad Alessandro Magno, il grande condottiero macedone;
dedicato al maresciallo Alexander, che divenne conte di Tunisi dopo la vittoria a El Alamein sulle truppe dell'Asse, nel 1943;
dedicato al letterato Alexander Woollcott;
dedicato allo zar Alessandro II di Russia;
prende il nome dal creatore Troy Alexander, barman al "Rector's".

Data l'origine molto vecchia di questo drink, l'Alexander ha attraversato molte generazioni, dando origine nel tempo a moltissime varianti:
Brandy Alexander: sostituisce il gin con il cognac; senza dubbio la più nota, in quanto è la versione codificata fra i cocktail ufficiali IBA. Fino al 2004 era denominato semplicemente "Alexander". Nei primi ricettari era indicato anche come Panamà
Grasshopper: sostituisce il gin con la crème de menthe verde; anche questa variante è classificata fra i cocktail ufficiali IBA.
Alexandra: sostituisce la noce moscata con il cacao in questa versione veniva utilizzato la crema di cacao chiara al posto di quella scura.
Alexander's Sister: sostituisce alla crème de cacao la crème de menthe.
Alexander's Cousin: sostituisce alla crème de cacao e alla panna la crema di whiskey (può essere composta con cognac o gin).
Alejandro (o Panamà): sostituisce il gin con il rum.
Alexandre (o erroneamente Velvet Hammer): sostituisce al gin il triple sec.
Oleksandr: sostituisce al gin a vodka.
Iksander (o Coffee Alexander): sostituisce il gin con il liquore al caffè (se utilizza un prodotto commerciale prende il nome dal marchio, ad esempio: kahlua, Tia Maria, Borghetti).



Ricetta e preparazione cocktail Alexander:
Mettere nello shaker 4 cubetti di ghiaccio, versare la panna liquida, il brandy e la crema di cacao. Agitare per pochi secondi e servire nella doppia coppetta da cocktail dopo aver aggiunto la noce moscata in superficie.

Ingredienti del cocktail Alexander:
1/3 Crema di latte
1/3 Crema di cacao scura
1/3 Cognac o Brandy

Short drink a base di brandy e crema di latte. Ideale per chi non ama le bevande troppo alcoliche. Categoria Short drink. Ideale dopo cena. Attenzione: è molto calorico per la presenza di panna. Non è indicato come aperitivo.

La base alcolica dell'Alexander è composta dal cognac, o nella versione Brandy Alexander, dal brandy, distillato analogo al cognac francese di produzione italiana, anche se sembra che la prima versione di questo cocktail fosse il Panamà dove al posto del cognac si usava il gin.
Le caratteristiche fondamentali di questo cocktail sono la sua cremosità, è molto vellutato al palato, il suo profumo intensificato dalla noce moscata ed un discreto grado alcolico.
L'Alexander non è adatto come aperitivo, dato l’impiego di ingredienti cremosi e aromatici, ma piuttosto come after dinner. Viene servito nella doppia coppetta da cocktail.




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venerdì 19 febbraio 2016

IL CUBA LIBRE


Il Cuba libre è un cocktail ufficiale IBA, appartenente alla categoria dei long drinks a base di rum bianco, cola e lime. Simile al rum & cola, i due termini vengo spesso utilizzati in modo intercambiabile, sebbene indichino due cocktail differenti.

L'origine del cocktail è piuttosto incerta. L'ipotesi più comunemente accreditata afferma che il Cuba Libre Nacque tra il 1900 e il 1902 a L'Avana, durante la Guerra ispano-americana e la conquista dell'indipendenza di Cuba dalla Spagna con l'aiuto degli Stati Uniti. I soldati cubani e statunitensi erano soliti mescolare la cola, importata a Cuba per la prima volta proprio in quegli anni, con il rum. Varie le supposizioni sul nome dell'inventore: alcune fonti fanno risalire la ricetta ad un soldato, chiamato col nome di copertura John Doe, che ordinò all'American Bar di Calle Nettuno, un bar aperto da due americani nella capitale cubana, "Coca Cola americana, rum cubano in un bicchiere pieno di ghiaccio e una spruzzata di lime", brindando successivamente Por Cuba libre! (per Cuba libera), il grido di battaglia dei guerriglieri; secondo una deposizione del 1965 di Fausto Rodriguez, un messaggero dell'esercito cubano, il soldato sarebbe il capitano Russel dei corpi di comunicazione americani. Un'altra teoria propone che fu un barman cubano a mescolare la Coca Cola (prodotto tipico statunitense) al rum (prodotto tipico cubano) per unire simbolicamente le due nazioni. Altre ipotesi fanno derivare il Cuba libre dal Daiquiri allungato con la cola, ricetta in seguito semplificata secondo l'uso attuale, o propongono l'origine del nome dalla testata del giornale rivoluzionario "Cuba Libre" fondato nel 1928 da Julio Antonio Mella.



Nella ricetta originale il procedimento è semplice: la prima cosa da fare è riempire un bicchiere highball, cioè un tumbler alto, di ghiaccio. «Più ce n’è e meno rapidamente i cubetti di ghiaccio possono sciogliersi, così non si rischia di diluire troppo acqua e rum», parola di Filippo Vianelli, bartender Bacardí. Si continua con un lime - i più pregiati sono quelli importati dal Brasile - lo si taglia in due parti, facendo attenzione ad eliminare anche le estremità che trattengono un succo più amarognolo, e lo si spreme tutto nel bicchiere.
Le due parti tagliate di lime, una volta spremute, vengono lasciate sul ghiaccio nel bicchiere, prima di versare il rum, la dose esatta è 50 millilitri di Bacardi Gold. A seguire Coca Cola sino all’orlo del tumbler. Una dolce mescolata con un cucchiaio da cocktail e il Cuba libre è pronto per essere servito. Questa è la ricetta originale che si beveva a Cuba dopo la guerra d’Indipendenza. Perché sia buono? Sta tutto nel perfetto bilanciamento tra rum e il succo di lime.

Il grado alcolico del cocktail Cuba Libre, preparato secondo le quantità specificate nella ricetta tradizionale, è pari a circa 13.3% Vol.

Il cocktail Cuba Libre, preparato secondo le quantità specificate nella ricetta tradizionale, apporta circa 148 calorie (Kcal).



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giovedì 18 febbraio 2016

I CIBI SURGELATI



I surgelati in termini di praticità rappresentano un valido aiuto soprattutto per chi ha poco tempo per cucinare.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, molti sono i vantaggi che offrono i prodotti surgelati. Consideriamo le verdure, che sono tra i prodotti più acquistati nei banchi frezeer del supermercato.
Da sfatare la credenza che l’operazione del surgelamento comporti la perdita di freschezza e valori nutritivi: al contrario, sono proprio la verdure surgelate a mantenere maggiormente intatte le proprie qualità, anche organolettiche, poiché negli ortaggi freschi una certa perdita dei nutritivi ha inizio nel momento in cui vengono raccolti dal suolo, e finisce tragicamente in pentola durante cotture scorrette o prolungate. Il processo di deterioramento e l’azione di enzimi e batteri sono piuttosto rallentati o bloccati dall’abbassamento della temperatura e dalla cristallizzazione. Il raffreddamento rapido ha però di converso la capacità di rovinare gli ortaggi nella consistenza, poiché il processo di surgelazione comporta la formazione di micro cristalli di ghiaccio che modificano i tessuti degli alimenti.

Sembra un paradosso, ma molti vegetali surgelati sono migliori dei prodotti freschi. Quello che si compra dall’ortolano a volte è esposto da diversi giorni o viene conservato in frigo. Con il risultato che ha perso una parte del suo potere nutritivo, perché è andato incontro a processi di ossidazione (a contatto con l’aria) e ad altre reazioni chimiche. Secondo ricerche dell’Inran, l’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, dopo tre giorni a temperatura ambiente i carciofi perdono il 30% della vitamina C, gli asparagi e i broccoli l’80%. Gli spinaci ne perdono il 75% in soli due giorni (anche se è vero che l’organismo è comunque in grado di utilizzare la vitamina C ossidata, ritrasformandola in una forma attiva). Passano invece poche ore dal raccolto alla surgelazione. Ottimi gli spinaci e in generale le verdure a foglia, che riescono a mantenere il sapore dell’appena colto. L’importante è scegliere prodotti divisi in piccole porzioni: il freddo arriva più velocemente al cuore dell’alimento. Sono perfetti i cubetti di spinaci, le patate affettate sottili, i sacchettoni di minestrone a dadini.

Date le piccole dimensioni, anche i legumi sono ideali per la surgelazione. Ottimi per la preparazione di minestroni, piselli e fagioli del banco freezer sono come quelli appena colti. Unica pecca, non hanno lo stesso sapore. Sono comunque preferibili a quelli in scatola che contengono sale, usato come conservante. E sono più comodi di quelli secchi, che devono essere lasciati a bagno per ore.

La surgelazione è il trattamento che più di altri permette di mantenere il valore nutrizionale del pesce per un lungo periodo. L’importante è non dimenticare che le varie specie hanno tempi di conservazione diversi.
Le proprietà nutritive si mantengono pressoché inalterate nei pesci piatti, come sogliola o platessa, dotati di pelle spessa e magri, che si conservano perfettamente in freezer per sette-otto mesi.
Qualche problema invece lo può dare il pesce azzurro: la pelle è molto sottile, come per esempio nelle alici, di conseguenza si possono formare piccoli tagli che ne diminuiscono la conservabilità.
Attenzione ai pesci grassi, come sgombro e salmone. La qualità ottimale non dura a lungo (da quattro a sei mesi), a causa dell’irrancidimento degli omega 3, che non viene bloccato dal freddo. Meglio scegliere un bel merluzzo che mantiene le sue proprietà fino a un anno. Se si scelgono i filetti, già puliti e senza pelle, la glassatura, cioè il sottile strato di ghiaccio che ricopre la superficie, crea una barriera protettiva contro la disidratazione dell’alimento e l’irrancidimento dei grassi, prolungandone la conservabilità. Molluschi e crostacei, molto deperibili ma anche molto magri, si adattano bene alla surgelazione che, oltre a inattivare i batteri, frena anche eventuali parassiti.
È importante, però, che la presenza di batteri e parassiti sia la più bassa possibile al momento della surgelazione, per evitare contaminazioni quando il cibo verrà scongelato (e il ciclo vitale di questi microrganismi riprenderà). A questo scopo gli alimenti più a rischio, come le cozze e le vongole, vengono quasi sempre precotti prima dell’avvio della surgelazione.
Un suggerimento quando siete davanti al bancone dei surgelati: scegliete la confezione di plastica sottovuoto, che permette di vedere il prodotto e assicura la sua conservazione per un tempo più prolungato, perché abbina la mancanza di ossigeno alle basse temperature.

La surgelazione intrappola senza problemi anche le proteine delle carni rosse o bianche.
La carne dev’essere surgelata in piccole porzioni, con le parti ben divise l’una dall’altra: così è più facile surgelarla (perché il freddo raggiunge rapidamente anche le parti interne) ed è più agevole scongelarla (un grosso blocco di carne resterebbe durissimo per molte ore). Lo spezzatino si conserva bene, fino a nove mesi, quanto alle fettine, bisogna sceglierle di due-tre centimetri al massimo di spessore. Pollo, coniglio e tacchino dovrebbero essere divisi almeno in quattro parti.
Altro suggerimento: i grassi si irrancidiscono se conservati a lungo, compromettendo la qualità dell’alimento. Sì alle carni magre o private del grasso visibile. Del maiale, per esempio, meglio filetto e lonza delle costine. Tra le carni bovine, il vitello è preferibile al manzo perché più magro. Le salsicce surgelate durano poco, sei mesi al massimo. Mentre vanno evitate del tutto le frattaglie, troppo ricche di grassi.



La frutta surgelata? Mele, uva e cocomeri sono meglio freschi, perché fuori dal freezer diventano una poltiglia. Le banane e le pesche invece si ossidano, scurendosi.
E fragole e frutti di bosco che vanno per la maggiore? È importante che, dopo lo scongelamento, il liquido che i frutti perdono venga recuperato, perché ricco di vitamine.

Nessuna perdita di nutrienti sotto lo zero per la michetta, però la fragranza non è certo la stessa di quella appena sfornata. Meglio i panini piccoli: bocconcini invece della ciabatta, che tende a sbriciolarsi quando viene scongelata. Da evitare il pane al latte, al burro e all’olio: contiene grassi, perciò si deteriora facilmente.
Via libera alle paste crude da pane e da pizza. Si conservano anche a -10 gradi. Salutari i tortellini o i ravioli e in genere tutto quello che è surgelato senza condimenti. Tra i cereali, ottimo anche il mais, sempre che si scelgano i chicchi e non le pannocchie intere.

Il processo di surgelazione abbassa in tempi rapidi la temperatura dell’alimento portandola a valori inferiori a -18º: in questo modo, l’acqua naturalmente presente nei cibi si solidifica, creando dei micro cristalli di ghiaccio. Se la velocità di abbassamento della temperatura è molto elevata, l’acqua solidifica omogeneamente e i micro cristallini causano lesioni minime al prodotto. Se invece l’abbassamento della temperatura è più lento, l’acqua diventa ghiaccio in modo non uniforme e ciò potrebbe creare fratture ai tessuti. Questo procedimento si applica, dagli anni ’30 circa, per conservare gli alimenti anche per tempi molto lunghi e proprio con l’obiettivo di non sprecare i raccolti e di non far mancare le tanto preziose porzioni di verdura quotidiane anche nei mesi invernali.

La carne opportunamente surgelata si conserva piuttosto a lungo (dai 24 mesi per le carni bovine ai 6 mesi per quelle suine circa) e mantiene inalterate quasi tutte le proprie qualità, ma si verifica una diminuzione delle vitamine del gruppo B (tra 20-40%) e della vitamina A (circa 3%), come attestano i dati forniti dall’Istituto Italiano Alimenti Surgelati. Per alcune preparazioni, come i bolliti, la carne surgelata presenta un vantaggio: dopo lo scongelamento le fibre sono più tenere e morbide.
Alcuni pesci molto ricchi di grassi polinsaturi come il salmone, le sardine e lo sgombro, subiscono invece un deterioramento a livello dei lipidi, pertanto sono da questo punto di vista preferibili freschi. Via libera a orata, branzino, spigola, crostacei e molluschi, poiché surgelati freschissimi.

Il problema principale per tutte le categorie di alimenti è il mantenimento della cosiddetta “catena del freddo”: i prodotti devono mantenersi sempre surgelati, durante tutti i passaggi della distribuzione fino all’acquisto e al consumo, sia per motivi igienico-sanitari sia organolettici. Per non interrompere la catena del freddo, dal supermercato a casa, ricordati di mettere i cibi in una borsa termica e presta attenzione a non ricongelare il prodotto una volta che l’hai parzialmente o completamente scongelato. Con l’aumentare della temperatura i processi di deterioramento che si erano bloccati grazie al freddo riprendono velocissimi, ed è questo il motivo per cui i cibi scongelati devono essere consumati velocemente, e mai ricongelati.

Non va poi dimenticato che le basse temperature bloccano anche l’attività di enzimi e batteri che, a temperatura ambiente, decompongono invece l’alimento. Pertanto la surgelazione si può ritenere la migliore tecnologia di conservazione da un punto di vista igienico e nutrizionale ed oggi, in più, è possibile scegliere tra moltissimi prodotti, spaziando dalla verdura a foglia che riesce a mantenere il sapore dell’appena colto o quelle divise in piccole porzioni, come ad esempio i cubetti di spinaci, le patate affettate sottili o il minestrone a dadini, i legumi (fagioli e piselli), alla frutta sebbene questa sia più difficile da conservare, alla carne sia rossa che bianca (pollo, coniglio) che conserva inalterate le proteine, al pesce fra il quale sono ottimi il merluzzo atlantico, il nasello, i pesci piatti e magri come la sogliola e la platessa che grazie alla pelle spessa possono essere conservate in freezer per sette-otto mesi, i molluschi e i crostacei.

Infine per quanto riguarda pane, pasta e pizza i nutrienti si mantengono ma il pane (evitando quello al latte, al burro e all’olio che contiene grassi che si deteriorano facilmente) perde parte della sua fragranza. Paste crude da pane e da pizza possono essere invece conservate anche a -10°C, così come tortellini e ravioli purché surgelati senza condimento.

Nel caso in cui i cibi freschi vengano surgelati in casa, occorre fare attenzione che il frigorifero arrivi a una temperatura di -18°C e disponga di almeno tre o quattro stelle. Questo perché il processo di surgelamento, rispetto a quello industriale, è più lento e c’è il rischio che i cristalli di ghiaccio che si formano all’interno dell’alimento siano piuttosto grossi e ne danneggino le cellule con uno decadimento della qualità e delle proprietà nutrizionali dei cibi.



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mercoledì 17 febbraio 2016

IL LIEVITO


In natura il lievito è presente nelle bucce dell’uva e nel grano con cui, probabilmente per caso, venne prodotto per la prima volta il vino.

Il lievito, infatti, è di solito utilizzato sia in bevande come vino e birra sia in alcuni tipi di impasti alimentari (come il pane) e, in questo caso, si usa il Saccharomyces cerevisiae (saccaromicete) conosciuto anche con il nome di lievito di birra che ha la capacità di far “crescere” gli alimenti con cui viene in contatto.

La risposta è da ricercarsi in una reazione chimica: il lievito fermentato, infatti, converte gli zuccheri, presenti nella farina, in anidride carbonica ed etanolo, rispettivamente un gas e un alcol. Il primo provoca il rigonfiamento dell’impasto poiché causa l’espansione delle proteine di glutine; il secondo evapora durante la cottura. Tuttavia, l’etanolo è utile quando si producono bevande come la birra e il vino.
In biologia, i lieviti sono organismi monocellulari appartenenti al regno dei funghi. In cucina, invece, il termine lievito ha un significato più ampio e viene esteso a qualsiasi microrganismo, o sostanza chimica, in grado di far "gonfiare" un impasto per incorporazione di bolle gassose. Esistono due tipi principali di lieviti:
lieviti naturali o lieviti propriamente detti: lievito di birra, pasta acida o lievito madre, kefir.
Lieviti chimici: acido tartarico, cremor tartaro, bicarbonato d'ammonio o di sodio ecc.
L'aggettivo "chimico" non ha una connotazione necessariamente negativa: ogni tipo di lievito presenta i propri vantaggi e svantaggi, che lo rendono adatto a particolari impieghi piuttosto che ad altri. Va da sé che il lievito chimico non è protagonista di una vera e propria lievitazione, dato che non produce alcuna fermentazione microbica.
Accanto alla lievitazione naturale e a quella chimica, esiste anche una cosiddetta lievitazione fisica. Per esempio, nella preparazione della pasta sfoglia, in cottura si assiste ad una lievitazione perché l'acqua dell'impasto evapora e viene intrappolata negli strati impermeabili di grasso, che impediscono ai fogli di pasta di aderire tra loro. Nelle meringhe e nelle altre preparazioni a base di albume d'uovo montato, l'azione meccanica di sbattitura ingloba minutissime bollicine d'aria che fanno aumentare sensibilmente il volume iniziale, fino a 6/8 volte.

Saccharomyces cerevisiae è conosciuto anche come lievito da fornaio o lievito di birra; è usato come organismo modello da biologi che studiano genetica e biologia molecolare (in particolare ciclo cellulare) perché è facile crescerlo in coltura e come Eucariota ha una struttura cellulare complessa. Quello di Saccharomyces cerevisiae è stato il primo genoma di un eucariota a essere sequenziato completamente. Il database del genoma dei lieviti è uno strumento molto importante per sviluppare la conoscenza del funzionamento e organizzazione della genetica e della fisiologia delle cellule eucariote. Un altro importante S. cerevisiae database è mantenuto dal Centro di informazione per le sequenze proteiche di Monaco di Baviera.

Il lievito di birra è economico, naturale, apporta vitamine e minerali alla preparazione,impiega minor tempo di lievitazione rispetto all'impiego del lievito madre.

Può dare problemi di gonfiore intestinale. Tali effetti sono amplificati da una lievitazione incompleta e/o da una cottura insufficiente del prodotto. Molto dipende comunque dal grado di tolleranza individuale e dalle dosi di consumo.
Rispetto al prodotto ottenuto con pasta acida, quello che sfrutta il lievito di birra è meno digeribile e contiene più tiramina.

L'attività del lievito di birra è massima attorno ai 26/28°C. Per la maggior parte delle ricette, la lievitazione dovrebbe quindi avvenire in un ambiente con una temperatura pari a circa 30/40°C (in modo che al centro dell'impasto si raggiunga la temperatura ideale); si tenga presente che il lievito muore a temperature di circa 55-60°C, quindi - ad esempio - il calore di un termosifone acceso a diretto contatto con l'impasto è eccessivo.
L'attività del lievito di birra è influenzata dall'umidità ambientale, che non dev'essere né eccessiva né incompleta (ideale intorno al 70/80%). A tal proposito, i panificatori professionisti usano delle camere a temperatura e umidità costanti per ottenere sempre il miglior risultato possibile. E' anche importante evitare di esporre l'impasto a correnti d'aria durante la lievitazione.
Il lievito di birra si trova sul mercato come lievito fresco pressato in cubetti o come lievito secco in polvere. Non esistono grandissime differenze in termini di attività, poiché il lievito in condizioni sfavorevoli non muore veramente; piuttosto, entra in uno stato di "morte apparente", pronto a "rinascere" non appena le condizioni ambientali tornano favorevoli. Principali differenze tra i due tipi di lievito:
il lievito di birra secco si conserva più a lungo, per circa un anno se mantenuto in ambiente fresco e asciutto;
il lievito di birra fresco, invece, si conserva per circa un mese, purché conservato in frigo, a una temperatura dai 2 agli 8 °C.
In generale, si tenga presente che un lievito vicino alla data di scadenza o già scaduto è meno attivo e tende a modificare le caratteristiche organolettiche dell'impasto in senso sfavorevole.
Le dosi di impiego del lievito di birra fresco e di quello essiccato sono diverse; quello secco, in particolare, presenta un'attività fermentativa inferiore (a parità di peso reidratato), ma contiene molte più cellule per grammo di prodotto.

1g di lievito di birra fresco = 0,33g di lievito di birra essiccato = 4g di lievito madre essiccato
Di regola, si consiglia di sciogliere il lievito in acqua appena calda (40-45°C), a volte con un po' di zucchero (o estratto di malto) disciolto; ciò ha lo scopo di favorire l'attivazione dei microrganismi. Se l'acqua è fredda, si ha la perdita di glutatione dalla parete cellulare del lievito, rendendo l'impasto più colloso e difficile da maneggiare. Inoltre, con il freddo i lieviti rallentano la propria attività.
Anche il tipo di acqua usato per l'impasto è importante, poiché influenza il risultato finale. Ad esempio, un'acqua molto alcalina rallenta i tempi di lievitazione.
Il lievito di birra fresco conservato in frigorifero andrebbe riportato a temperatura ambiente prima dell'uso.
L'aggiunta di una piccola quantità di zucchero (saccarosio) o maltosio all'impasto favorisce ed accelera l'azione lievitante del lievito di birra.
Mettere il lievito direttamente a contatto con alte concentrazioni di sale o di zucchero, determina la morte dello stesso a causa dell'elevata pressione osmotica (priva il lievito dell'acqua cellulare fondamentale per il suo metabolismo). Anche un eccesso di burro e grassi in genere compromette l'attività dei lieviti.



Il lievito di pasta acida - noto anche come lievito madre, lievito naturale, lievito acido, pasta crescente o pasta madre - si ottiene prelevando un pezzetto di impasto (contenente lievito) dalla precedente preparazione non cotta. Tale composto va conservato e lasciato maturare per un certo periodo di tempo. Questo campione - detto lievito capo - fungerà da mezzo di coltura e riserva di lieviti, e verrà quindi aggiunto al successivo impasto (di cui se ne preleverà una parte per la lavorazione successiva e così via).
Sembra semplice, ma si tratta di una vera e propria arte, che richiede molta esperienza.

A differenza del lievito di birra, nel lievito di pasta acida troviamo svariati tipi di microrganismi, come saccaromiceti, fermenti lattici ed acetici che vengono "assorbiti" direttamente dall'ambiente. Proprio per questo, oltre all'anidride carbonica e all'alcool, l'attività fermentativa determina la produzione di acidi e sostanze aromatiche (ad esempio acido lattico, acetico, propionico, butirrico ecc), a tutto vantaggio delle caratteristiche organolettiche.
I maggiori tempi di lievitazione richiesti danno agli enzimi litici presenti nei lieviti - come proteasi, lipasi e amilasi - più tempo per scomporre le macromolecole proteiche, lipidiche e amidacee in nutrienti più semplici. Un prodotto ottenuto con lievito madre è quindi generalmente più digeribile. Tra questi enzimi vi è anche la fitasi, presente negli involucri esterni del chicco, la quale - durante i lunghi tempi di lievitazione - neutralizza l'acido fitico (un antinutriente, presente nella crusca, che tende a impedire l'assorbimento da parte dell'intestino di alcuni importanti minerali, fra cui il calcio, il ferro, il magnesio e lo zinco); per questo motivo, un pane integrale ottenuto con lievito madre è anche più nutriente e digeribile. La pasta acida può inoltre avere un'azione probiotica ed eliminare (o ridurre) i problemi di gonfiore addominale legati al consumo di impasti lievitati.
Il maggior grado di acidità legato alla fermentazione polimicrobica, garantisce anche una maggiore conservabilità del prodotto.

La lievitazione con pasta acida è un processo lento e difficilmente standardizzabile. Pertanto, questa vera e propria arte è ormai rilegata a pochissimi tradizionalisti e alla panificazione casereccia.
Molti vantaggi (e svantaggi) sono legati alla microflora che compone la pasta madre, al suo stato di conservazione e rinfresco ecc. Ad esempio, l'impasto potrebbe essere troppo acido o presentare un'alveolatura irregolare.

Per utilizzare il lievito di pasta acida occorre molta dimestichezza nelle cosiddette operazioni di rinfresco. Queste si effettuano aggiungendo al lievito di pasta acida nuova farina ed acqua, con lo scopo di conferirgli il giusto grado di "forza" e acidità

Per ottenere una nuova pasta acida è anzitutto necessario produrre un impasto di acqua e farina, lasciato a contatto con l'aria in modo che si arricchisca dei lieviti presenti nell'ambiente.
2 parti di farina (es. 200g)
1 parte di acqua tiepida (es. 100ml)
un cucchiaino di zucchero (o malto o miele) che funge da starter.
Mescolare gli ingredienti ed impastare sino ad ottenere un composto morbido. Praticare un taglio a croce e lasciare riposare il tutto in un contenitore di vetro coperto con un canovaccio pulito e umido, a temperatura ambiente per 48 ore (durante le quali raddoppierà di volume).

FASE 2 (3°-4° giorno). Dopo le 48h di riposo, prelevare una parte di composto (es. 200 grammi) ed aggiungervi:
1 parte di farina (es. 200g)
Metà parte di acqua tiepida (es. 100ml)
Mescolare gli ingredienti e impastare sino ad ottenere un composto morbido. Quindi lasciare riposare per 48 ore con le stesse modalità elencate per la fase 1.

FASE 3 (5°-6° giorno). Trascorse le 48h di riposo, ripetere la fase 2.

FASE 4 (7°-13° giorno). Trascorse le 48h di riposo, ripetere la fase 3 lasciando però riposare soltanto per 24 ore. Ripetere ogni 24 ore per altri 7 giorni.

FASE 5 (14° giorno). Dopo due settimane dall'inizio della fase 1, la pasta madre sarà pronta. Qualora la preparazione risultasse troppo acida, estendere la fase 4 per qualche altro giorno.

Una volta ottenuta, la pasta madre viene conservata in frigorifero e tenuta in vita e riprodotta per mezzo di successivi rinfreschi ogni 2/6 giorni.

La sera precedente alla preparazione, prelevare il lievito madre dal frigo. Lasciare riposare almeno 15 minuti a temperatura ambiente e aggiungervi farina e acqua tiepida nelle proporzioni di:
una parte di pasta madre
una parte di farina
mezza parte di acqua
Eventualmente aggiungere come starter anche un cucchiaino scarso di zucchero ogni 150g di pasta madre
Impastare e far riposare a temperatura ambiente per almeno una notte. Il giorno seguente:
prelevarne una parte di pasta acida da conservare in frigorifero per le preparazioni future.
aggiungere la pasta acida rinfrescata ai vari ingredienti della preparazione e procedere secondo ricetta
In commercio si trova il lievito madre essiccato che garantisce la relativa standardizzazione delle preparazioni, pur mantenendo molti vantaggi tipici dell'utilizzo di questo tipo di lievito. In genere, si utilizza in abbinamento ad uno starter (piccole quantità di lievito di birra o di yogurt).
Se volete preparare da soli il lievito madre, preventivate diversi fallimenti fino a quando non avrete accumulato sufficiente esperienza.

La biga è un impasto "grezzo", poco idratato e composto da farina, acqua e lievito in piccolissime quantità, da utilizzare il giorno successivo in sostituzione del lievito.

Il poolish è un metodo di panificazione chiamato anche "biga liquida". È un lievito semiliquido ottenuto attraverso la miscelazione di acqua e farina in parti uguali e lievito in quantità molto ridotta (proporzionale ai tempi di lievitazione). È preparato diverse ore prima dell'impasto definitivo e lasciato a temperatura ambiente tanto più a lungo quanto minore è il contenuto di lievito. Quando il poolish è maturo si aggiunge la quantità di farina necessaria per ritrovare la giusta consistenza dell'impasto e gli altri ingredienti. Segue una seconda fase di lievitazione prima della cottura.

Il lievitino deve essere sciolto in un po' d'acqua dolcificata con zucchero, miele, malto ecc. Si utilizza dopo aver fatto riposare la soluzione per mezz'ora in un luogo caldo; quando sarà pronto si formerà una leggera schiuma in superficie.

Per la pasta di riporto si preleva una porzione dell'impasto lievitato del giorno precedente, la si conserva per un giorno o due (non oltre) e la si utilizza nella successiva panificazione insieme ad un piccolo quantitativo di lievito di birra.

Con il bicarbonato di ammonio inauguriamo la lista dei cosiddetti lieviti chimici; si tratta per l'appunto di sostanze in grado di scatenare una reazione chimica dalla quale si libera gas, in genere anidride carbonica. Vengono usati soprattutto per la lievitazione dei dolci durante la cottura, dato che il gas si sviluppa tipicamente con il riscaldamento del lievito chimico e/o per interazione di più lievitanti chimici. Anche l'umidità e il pH tendono ad avere un ruolo molto importante.
Proprio perché non hanno bisogno di un tempo di riposo per la lievitazione prima della cottura, i lieviti chimici sono chiamati anche lieviti istantanei.
Ad esempio, con il calore il bicarbonato di ammonio si decompone in tre gas: vapore acqueo, anidride carbonica e ammoniaca. Si usa soprattutto nell'industria dolciaria per la produzione di biscotti secchi, mentre a livello domestico è poco utilizzato.
Come tutti i lieviti chimici, rende più veloce e sicura la lievitazione.
I lieviti chimici sono meglio tollerati da chi soffre di intolleranza o allergia ai lieviti.

L'ammoniaca è un gas dall'odore acre e quando non evapora completamente (in caso di sovradosaggio dell'agente lievitante o cottura incompleta) può impartire un sapore amarognolo al prodotto.
Appena sfornati, i prodotti da forno preparati con bicarbonato d'ammonio possono avere un sentore e un retrogusto amarognolo, che tendono però a svanire man mano che il prodotto si raffredda.
Ideale per i dolci, è invece sconsigliato per la panificazione; infatti tende a dare prodotti meno digeribili, meno conservabili e dal sapore "artificiale".

A cottura ultimata, accendere la cappa ed aprire il forno mantenendo il volto lontano dai vapori; la respirazione dei gas di ammoniaca, infatti, oltre che poco salutare può causare episodi di lipotimia.
Le polveri di lievitanti chimici non devono essere disciolte in un liquido, ma mescolate direttamente agli ingredienti secchi (farine, zucchero ecc.). Una volta amalgamati gli ingredienti, è bene infornare subito l'impasto.
In genere, i lieviti chimici temono molto l'umidità atmosferica, per cui devono essere custoditi con cura in un contenitore a tenuta stagna.
Quando una ricetta prevede l'impiego di un certo tipo di lievito chimico, seguire alla lettera le indicazioni in merito al quantitativo e al tipo di lievito suggerito.

Cremor tartaro è il nome di fantasia dato al bitartrato di potassio. Si tratta ancora una volta di un lievito chimico, utilizzato principalmente per stabilizzare l'albume montato a neve (grazie alla sua lieve acidità favorisce la coagulazione delle globuline del'albume).

Spesso i lieviti chimici vengono usati in combinazione tra loro e addizionati di correttivi del sapore (come la vanillina); tutto ciò allo scopo di ridurre gli effetti negativi di un sovradosaggio o impedire che il lievito liberi tutto il gas mentre l'impasto è ancora in fase di lavorazione. Oltre al cremor tartaro, si ricordano l'acido tartarico, il bicarbonato di sodio, il carbonato di calcio e di magnesio, e i pirofosfati. La velocità di liberazione dei gas è un aspetto fondamentale; se ad esempio è troppo veloce, il gas si svilupperà prima che la struttura dell'impasto si sia sufficientemente irrigidita per effetto del calore; di conseguenza, il prodotto si gonfierà velocemente per poi afflosciarsi.

I lieviti Top-fermenting (così chiamati perché galleggiano sulla superficie della birra) preferiscono temperature più alte, e danno alla birra un profilo aromatico complesso, con toni fruttati e speziati. Il classico lievito ad alta fermentazione è Saccharomyces cerevisiae, conosciuto come ale yeast. Esempio classico di birre in cui vengono utilizzati sono le ale.

I lieviti Bottom-fermenting lavorano a basse temperature e alla fine della loro attività si depositano sul fondo. Fra questi: Saccharomyces uvarum e Saccharomyces carlsbergensis usati per produrre birre tipo -lager.

I produttori di vino in antichità usavano differenti ceppi di lieviti a seconda del tipo di vino e delle condizioni dell'uva. Troppo zucchero o un'eccessiva concentrazione di alcool rallentano la crescita del lievito, perciò per mosti con elevate concentrazioni zuccherine sono necessari lieviti con un'elevata resistenza all'alcol etilico. Se il lievito muore prima che tutti gli zuccheri fermentescibili siano stati trasformati in alcool, si incorre in un arresto fermentativo.

Alcuni lieviti sono selezionati in base agli aromi che tendono a sviluppare. Lieviti naturali sono già presenti sulla superficie degli acini d'uva (la pruina) perciò il succo d'uva tenderà spontaneamente a fermentare a meno che i lieviti non vengano fermati con temperature basse o con solfiti.

Negli anni novanta si è discusso molto sulla pratica di fermentare il vino con lieviti selezionati anziché i cosiddetti lieviti autoctoni. I fautori dell'uso dei lieviti selezionati sostenevano che si potevano ottenere vini molto più fini, eleganti e privi di difetti. I sostenitori dei lieviti autoctoni sostenevano che l'uso di lieviti selezionati deformava anche pesantemente i sentori tipici di una zona e che si sarebbero potuti creare sentori secondari a tavolino.

Parlare di una "tipicità del lievito" è però un concetto alquanto arduo. A proposito sono stati condotti numerosi studi relativi all'identificazione delle specie di lievito che popolano la superficie dell'uva, sia in Italia (De Rossi 1935, Castelli 1955 1967) sia presso vigneti francesi (Domercq 1953 e 1956). Tali studi non solo analizzano le caratteristiche delle specie sull'uva e in fermentazione, dove si sviluppano maggiormente quali sono i vettori, ma soprattutto hanno quantificato l'incidenza di tali ceppi sulla qualità o sui difetti del prodotto. Si è verificato come dei pochi ceppi "autoctoni" isolati molti presentano caratteristiche deleterie dal punto di vista enologico (alte produzioni di Acido Acetico, scarsa resistenza a basse temperature e a pH bassi, basse rese fermentative). La stragrande maggioranza degli isolamenti conferma infatti come i lieviti presenti sull'uva prima e nel mosto poi, vengano in realtà da contaminazioni con macchinari di cantina e ambientali. Senza alcuna connessione con il concetto di Tipicità o di Terroir. L'incidenza del lievito sulla qualità del vino (a differenza di quanto avviene con la birra) è relativa solo all'assenza di difetti; la qualità o la tipicità risiedono maggiormente nelle potenzialità dell'uva e nelle tecniche colturali ed enologiche.

Nella vinificazione sono in genere utilizzati Saccharomyces cerevisiae per le fermentazioni dei mosti normali e Saccharomyces bayanus per le fermentazioni di mosti ad alto contenuto zuccherino o per la presa di spuma.




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martedì 16 febbraio 2016

L'AMARONE



Il "re" della Valpolicella è l'Amarone, un importante e rinomato vino "da meditazione".
Il nome di questo rosso veronese strutturato, Amarone, deriva dalla parola “amaro”, adottata per distinguerlo dal dolce del Recioto della Valpolicella da cui ebbe, seppure involontariamente, origine.

Il nuovo epiteto Amarone per indicare il Recioto Amaro o Recioto Secco nasce nella primavera del 1936 nella Cantina Sociale Valpolicella, al tempo con sede presso Villa Mosconi ad Arbizzano di Valpolicella, ad opera del capocantina Adelino Lucchese, palato e fiuto eccezionali che, grazie al fortunato ritrovamento di una botte di recioto dimenticata in cantina e spillando il Recioto Amaro dal fusto di fermentazione, uscì in una esclamazione entusiastica: “Questo non è un Amaro, è un Amarone”. Il capocantina aveva regalato alla Valpolicella la parola magica e il direttore Gaetano Dall’Ora la usò subito in etichetta. La Cantina Sociale di Negrar nell’ingresso attuale ostenta giustamente una lettera di spedizione del 1942 con descrizione di “Fiaschetti di Amarone 1938”. Praticamente il recioto, messo in botte e poi dimenticato, continuò a fermentare fino a diventare secco. Gli zuccheri si sono così trasformati tutti in alcol e hanno fatto perdere la dolcezza al vino, al quale, in contrapposizione a quello che avrebbe dovuto essere, è stato dato il nome di Amarone. Fatta la scoperta, non è che l’Amarone fu subito perfetto. Anzi, a volte veniva fuori per combinazione, per fortuna, ancora dolce ma con un sapore finale di mandorla, magari risultato di una partita di Recioto in cui la fermentazione era sfuggita al controllo del produttore.

Di "vino amaro" si parlava fin dai tempi di Catullo nel Carme n. 27 (49 circa a.C.) reclama “calices amariores” (bicchieri più amari). Ma ben altri documenti ne danno testimonianza.

Cassiodoro, nei primi anni del V secolo, ricerca l’Acinatico della Valpolicella, rosso e bianco per la mensa del re ostrogoto Teodorico: si ritiene che fosse un "recchiotto amaro", scrive G. B. Peres nel 1900, opinione coincidente con quella del Panvinio, che nell’Acinàtico di Cassiodoro riconosce il Rètico di Augusto e del Sarayna (1543) che parla dei vini della Valpolicella "neri, dolci, racenti e maturi".

Tracce della predilezione per questo vino e per le uve che lo producono si ritrova anche nell'Editto di Rotari che stabiliva pene molto severe per chi arrecava danno alle viti e multe salate per chi rubava i grappoli. Per gli anni successivi al 1000 d.C. vi è traccia di alcuni atti d'acquisto e vendita di vigneti nella zona di produzione di "Amarone della Valpolicella", anzi il vino è considerato al pari del denaro per pagare i diritti feudali. Nei secoli successivi prosegue la presenza di "Amarone della Valpolicella" nei documenti ufficiali e negli scritti degli umanisti. Un estimo del 1503 attesta che la zona di produzione di "Amarone della Valpolicella" era una valle ricca e famosa grazie ai suoi vini. Fama che è continuata sino all'epoca illuministica quando Scipione Maffei in un importante testo ha proposto la dizione "amaro" per indicare il vino «d'una grazia particolare prodotto in Valpolicella».

Ma forse più di ogni altro vale il giudizio emesso da assaggiatori francesi a Parigi nel 1845 su una partita di vino "Rosso Austero Costa Calda" di San Vito di Negrar vecchio di 11 anni: "Supremo vino d’Italia... preferibile a diversi Bordeaux ed Hermitage".

Molti altri scrittori e studiosi si sono interessati a questo vino nei secoli successivi per arrivare alle prime analisi organolettiche su questo vino riportate nel bollettino della stazione agraria sperimentale di Verona della fine del 1800. I primi esemplari di bottiglie di "Amarone" senza etichetta arrivarono solo nei primi anni del Novecento per un uso familiare o destinati agli amici.

Per trovare la prima etichetta e il primo documento di vendita dobbiamo arrivare al 1938, ma venne ufficialmente commercializzato a partire dal 1953 da parte della cantina Bolla, anno di messa in commercio dell'Amarone fatto per scelta e non per fortuna. Ottenne subito un grande successo, anche se presso un pubblico contenuto di appassionati come era e rimane la produzione di questo vino, che copre il 10% di tutta la produzione dei vini del territorio, dominati dal Valpolicella e dal Valpolicella Superiore, rossi giovani e profumati, spesso da bere subito, freschi e gustosi.

Nel 1968 si è giunti all'approvazione ufficiale del primo disciplinare di produzione e al riconoscimento della DOC. Allo scopo di tutelare l'identità delle diverse tipologie inserite nella denominazione "Valpolicella", "Valpolicella Ripasso", "Recioto della Valpolicella" e "Amarone della Valpolicella", il 24 marzo 2010 sono stati adottati appositi decreti ministeriali con i quali le quattro tipologie sono state rese autonome. Il successo di "Amarone della Valpolicella" ha attraversato indenne i secoli, arrivando fino ad oggi come testimoniato dall'attenzione che continuano a tributargli giornalisti ed esperti di vino, che ne riconoscono la peculiarità inserendolo nelle più importanti guide enologiche come Buoni Vini d'Italia Touring Club, Vini d'Italia Gambero Rosso, Veronelli, Luca Maroni, Espresso, Enogea, Wine Enthusiast.



Prodotto con le medesime uve del Valpolicella: corvina, molinara e rondinella, esse vengono però lasciate appassire su graticci dette 'arelle' così da aumentarne grado zuccherino e aromi. I grappoli utilizzati per l'Amarone, raccolti per primi all'inizio della vendemmia, dovendo subire un processo di appassimento, saranno il più possibile integri, con gli acini non troppo serrati tra loro, spargoli, per permettere il passaggio d'aria, privi di ammaccature. Il processo di selezione dei grappoli viene fatto rigorosamente a mano e necessita di una certa esperienza e di un occhio attento. Purtroppo, come per tante attività artigianali tradizionali, anche per la selezionatura dei grappoli per l'Amarone, le persone con esperienza, spesso donne, vanno via via scomparendo e i produttori fanno sempre più fatica a trovare manodopera specializzata.
I grappoli vanno stesi tutti nel medesimo verso, in un unico strato sul graticcio, senza accavallamenti, e anche durante l'essiccamento hanno bisogno di cura costante e certosina. Vanno infatti meticolosamente eliminati tutti gli acini ammuffiti o marci. Alcuni produttori usano ancora i graticci di canna di bambù, allineati in antichi sottotetti e che una volta venivano utilizzati in primavera e in estate per la bachicoltura, diffusa nella zona, e in autunno per l'appassimento delle uve. La canna di bambù garantisce un maggior assorbimento dell'umidità, il vero nemico delle uve per l'Amarone. Altri produttori preferiscono utilizzare più moderne cassette in legno o materiale plastico, che possono essere riempite direttamente in vigna e trasportate nei centri di appassimento così da maneggiare i grappoli il meno possibile per evitare sfregamenti e ammaccature. Il profumo che si respira nei grandi sottotetti adibiti all'appassimento, tipici di molte aziende vitivinicole della Valpolicella tra settembre e gennaio, è qualcosa di indescrivibile.
L'appassimento, secondo il disciplinare, deve durare almeno fino al gennaio dell'anno successivo a quello della vendemmia, ma alcuni produttori qualora le uve lo permettano, preferiscono prolungare l'appassimento per far sviluppare ed esaltare alcuni aromi.
La pigiatura avviene quindi a gennaio. Il mosto, molto concentrato per il lungo appassimento delle uve, a causa della temperatura, fermenta lentamente. L'Amarone può raggiungere i 16 gradi alcolici.

Terminata la fermentazione, l'Amarone viene quindi messo in botti per la stagionatura. L'uso della barrique è consentito dal disciplinare, e alcuni produttori, con l'uso di questo strumento, hanno ottenuto risultati d'eccellenza. Tuttavia, il metodo tradizionale utilizza grandi botti di rovere da 80 o 100 ettolitri, dove l'affinamento dell'Amarone avviene più lentamente, con una minore superficie di contatto tra vino e legno i cui sentori risultano così meno aggressivi e meglio amalgamati al sapore del vino. Sebbene il disciplinare fissi in tre anni circa il tempo minimo che deve intercorrere tra la vendemmia e la commercializzazione, molte cantine che seguono il metodo tradizionale, lasciano il vino nelle botti per quattro o, per alcune grandi annate, cinque anni. Questo oltre a dare un gusto più morbido e rotondo all'Amarone, ne prolunga la vita. Esistono bottiglie di oltre trent'anni ancora eccellenti e, secondo gli esperti, con ancora qualche possibilità di miglioramento.
Le caratteristiche dell'Amarone sono il gusto rotondo e ricco, gli aromi di frutta matura e secca, liquirizia, per le annate più stagionate, pelle, tabacco, caffé.
Nel libro il Silenzio degli Innocenti, il raffinato Hannibal Lecter beveva Amarone, anche se nella versione cinematografica gli fanno bere un più conosciuto Chianti.
Per quanto sia eccellente per accompagnare piatti ricchi e saporiti, cacciagione e formaggi stagionati, il miglior modo per gustare l'Amarone è da solo, a fine pasto, magari di fronte a un caminetto scoppiettante, da soli o con la compagnia di vecchi amici.
La cucina veronese propone anche un raffinato piatto preparato con il più famoso vino della zona: il risotto all'Amarone.



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