venerdì 30 dicembre 2016

MENU' DI NATALE



L'Italia vanta diverse tradizioni riconducibili alle varietà di cucina regionale, ma anche il resto d'Europa e del mondo può offrire piatti natalizi vari e gustosi.

Nelle regioni settentrionali della Francia si prepara spesso la fressure de porc, pietanza a base di carne e interiora di maiale.

Il piatto natalizio per eccellenza in Francia è la galette des rois (“torta dei re”), un dolce a base di pasta sfoglia con un ripieno di crema alla mandorla. Viene preparato in occasione dell'Epifania, e si usa nascondere al suo interno una statuina di porcellana o di gesso che rappresenta una figura del presepe. Chi trova questa statuina viene incoronato “re della festa”.

Gli schowowebretele, biscotti speziati a base di burro e mandorle, accompagnano tutto il periodo festivo.

Le pietanze classiche del pranzo di Natale spagnolo sono l’escudella i carn d’olla, una zuppa di verdura e carne, e il tacchino con frutta glassata al forno. I dolci tipici sono il torrone e il Polvorones, preparato con limone, cocco e caffè.

I Kipperragut, una sorta di voul-a-vent con ripieno di carne, caratterizzano il periodo delle feste di fine anno olandesi. Sono ottimi come antipasto e facili da preparare, e si sposano bene anche con la cucina nostrana, a patto che il pasto sia a base di carne.

Il tacchino arrosto è senz'altro il piatto principe della tavola natalizia britannica. La particolarità della ricetta tradizionale risiede negli ingredienti del ripieno, realizzato con nocciole tritate, carne di vitello, bacon e grasso di rognone.

La cucina irlandese è basata su ricette abbastanza semplici e relativamente “povere”, ma robuste e saporite, e le ricette di Natale non fanno eccezione.

Latte, riso e mandorle sono i semplici ingredienti alla base del ris-a l'amande, saporito semifreddo natalizio danese.

Gli svedesi preparano un banchetto particolarmente sontuoso la sera della vigilia, composto da piatti di pesce secco, prosciutto, riso al latte, e dalle caratteristiche polpettine al prosciutto delle feste. La cena è accompagnata dal glögg, vino caldo aromatizzato non dissimile dal nostro vin brulè oppure da birra zuccherata.

I rumeni festeggiano il Natale all'insegna della carne di maiale, predominante in piatti come piftie de porc e sarmale de porc, solitamente accompagnati dalla mamalinga (una sorta di polenta). Il dolce tipico è il cozonac, a base di uova, farina, zucchero e vaniglia.

In Russia a Natale si mangia pesce: aringa e salmone affumicato, caviale rosso e nero con tartine o uova sode oppure i karp s kapustoi, filetti di carpa con i crauti.
I dolci tradizionali sono i piroski, torte farcite con ricotta, uvetta, mele e frutti di bosco, fritti oppure cotti al forno.

In Canada, Stati Uniti, Oceania si segue generalmente le tradizioni tipiche della Gran Bretagna (fatta eccezione per le aree francofone del Canada, più vicine alle usanze francesi) con alcune eccezioni: nel Nordamerica il classico tacchino arrosto viene condito con salsa di mirtilli, mentre gli australiani accostano alle classiche specialità europee la zuppa di ostriche di origine asiatica.

In Nuova Zelanda si preparano spesso le saporite focaccine natalizie al formaggio.

La pinata (pignatta) è un contenitore di cartapesca riempito di dolci, canditi e frutta, che i messicani appendono durante le festività perchè venga rotto dai bambini, che possono così mettere le mani sulle leccornie contenute al suo interno. I sapori dolci sono una costante di questo periodo e compaiono nei menù molto più spesso rispetto al resto dell'anno.

Popolare in Norvegia e venduta ogni anno sottoforma di salsiccia delle feste al Clifton Sausage Restaurant a Bristol, in Inghilterra, la carne di renna ha il sapore di selvaggina e risulta inaspettatamente tenera e gustosa se non viene cotta troppo. Non manca mai sulle tavole norvegesi a Natale.

Per connotare la vostra cena di Natale con dei sapori nordici, potete cuocere carne di cervo alla scozzese: aggiungendo del whisky, bacche di ginepro e lasciando arrostire lentamente.

I boschi della Polonia sono stracolmi di cinghiali selvatici. Per ogni cinghiale si contano circa 100 kg di carne di ottima qualità. Un’ottima soluzione può essere quella di cucinarlo in padella per un paio di ore con pancetta, funghi freschi e panna. Così compare sulle tavole polacche il giorno di Natale.

La carpa fresca è la pietanza festiva di tutta la Repubblica Ceca, infatti è possibile ammirare, davanti ad ogni negozio di alimentari, vasche piene di questi pesci per tutto il mese di Dicembre.

In Portogallo si dà il benvenuto al Natale con un pasto speciale a base di baccalà e patate lesse.

Il coniglio stufato è una specialità maltese. Alla carne, leggermente rosolata con aglio e aromi, viene poi aggiunto del vino rosso o una ricca passata di pomodoro. Non è esattamente un piatto della tradizione natalizia, ma il sapore deliziosamente rustico darà sicuramente alla vostra cena un tocco in più.

In Germania è l’oca arrosto il piatto tipico del giorno di Natale, servita con carote caramellate all’arancia e patate novelle arrosto.

Per gli svizzeri francesi, il Natale è un’occasione per dare sfoggio di vini raffinati e cioccolatini sublimi, coronati dalla presenza sulla tavola di un grosso e grasso cappone, sostanzialmente un pollo costoso e castrato ma squisitamente gustoso.

In Polonia, paese estremamente cattolico, le feste natalizie sono molto sentite e radicate. Il cenone della Vigilia non prevede pietanze a base di carne, come in Italia. Per sedersi a tavola è necessario aspettare l’apparire della prima stella in cielo, poi tutti i commensali si scambiano gli auguri spezzando l’Oplatek, un’ostia decorata non consacrata, ognuno deve mangiarne un pezzetto come simbolo di unità familiare.

La tradizione vuole che la cena sia costituita da dodici portate, come gli apostoli. Dato che c’è astinenza da carne si comincia con un antipasto a base di Sledz, ovvero l’aringa del Mar Baltico, un vero must delle tavole per le feste in Polonia. Cucinata nelle più svariate maniere, ogni regione ha le proprie varianti: fresca, marinata, sott’olio. Sfiziosi per iniziare sono i Rolmopsy, involtini di aringhe sotto aceto con verdure e foglie di alloro. Per vedere la ricetta cliccate qui.
Tra i primi piatti ricordiamo il Barszcz Uszkami, un brodo a base di rape rosse con una specie di tortellini ai funghi porcini, oppure una minestra di bietola piccante o a base di farina di segale.
Il secondo di solito prevede la Karp, cioè la carpa, pesce di acqua dolce, si compra viva la mattina della Vigilia e si mette a nuotare nella vasca di casa per poi friggerla pochi minuti prima della cena.
I dolci sono a base di frutta secca e miele. Il Makowiec, rotolo con semi di papavero e uva passa – molto diffuso – il Sernik una torta con ricotta, uvetta e canditi. Uno dei dolci più antichi della tradizione polacca è la Kutia, un miscuglio di semi di papavero, grani di grano, miele, uvetta, noci, nocciole, mandorle e fichi secchi. Il tutto accompagnato dal Kompot, bevanda di frutta cotta a base di mele e prugne secche.



Dalla Grecia ortodossa possiamo adottare il Christopsomo, o pane di Cristo. Si tratta di una pagnotta di pane dolce, con una croce sulla crosta. Sembra che la ricetta risalga all’epoca minoica e che si usasse come pane cerimoniale per invocare la fecondità della Madre Terra. La sua preparazione consiste in una specie di rituale con tanto di formule augurali benefiche. Gli ingredienti utilizzati sono la farina, l’acqua di rose, sesamo, miele, chiodi di garofano e cannella. Prima di essere riposto a lievitare si incide un segno di croce sull’impasto di acqua e farina. La tradizione vuole che il padrone di casa spezzi il “pane di Cristo“ sulla sua testa e se il pezzo di sinistra è il più grande il nuovo anno sarà lieto. Il consumo del pane è invece riservato al giorno di Natale, durante il pranzo. Solo il capofamiglia, come fosse un antico sacerdote, ha il diritto di tagliare il Christopsomo, mentre tutta la famiglia è in piedi intorno alla tavola.

In Nuova Zelanda le feste natalizie e la gastronomia locale si sono adattate al passato di colonia inglese. Un mix tra influssi locali maori e tendenze europee si possono notare nella Pavlova Cake, una torta di meringhe con kiwi e fragole. Fu inventata da un cuoco neozelandese in onore della ballerina russa Pavlova dopo aver assistito ad un suo spettacolo nel 1926.

Il piatto tipico natalizio danese è il Risalamande. E' un dolce tradizionale fatto con crema, vaniglia, mandorle e pudding di riso il tutto amalgamato fino a formare un tortino cremoso e delicato che si serve a Natale con amarene e frutti di bosco sciroppati.

Il pasto più importanante delle festività natalizie è quello della cena della vigilia. La tavola per l'occasione sarà imbandita di prelibatezze e non mancherà sulle tavole l'anatra farcita con mele e prugne o l'arrosto di maiale con pancetta croccanti e patate caramellate.

E nel giorno di Natale, non perdete un assaggio di smørrebrød, le tipiche tartine con carne, salmone o verdure, crema di riso, glog e vin brulè a volontà.

La tradizione inglese vuole che nell'impasto del buonissimo dolce inglese ci sia nascosta una monetina che porterà fortuna a chi la troverà. Il Natale a Londra è al sapore del Christmas Pudding, lo storico budino della tradizione natalizia. Sulle tavole natalizie non mancheranno nemmeno piatti a base di oca e tacchino arrosto, ripieni di nocciole tritate, carne di vitello, bacon e grasso di rognone, accompagnati da patate e mele, dolcetti, uva strutto e succo di limone.

Il tipico piatto natalizio in Etiopia è il Doro Wat on Injera, si tratta di una pasta spugnosa e soffice che si chiama Injera servita con carne ed un'ottima e colorata varietà di spezie e condimenti. Viene cucinato soprattutto a Natale (il Natale ortodosso in Etiopia si festeggia il 7 gennaio).

Lo Zakuski è un antipastino russo a base di pesce finemento tagliato e condito con salse speciali e saporite. Oltre che ottimo per il piacere della vista lo zakuski è anche il piatto ideale per accompagnare shottini di vodka.

Il piatto natalizio in Messico è il Chiles en nogada. Si tratta di una ricetta molto particolare a base di carne varia stufata e peperoni serviti con una crema di noci e chicchi di melograno. Tipicamente messicano e natalizio il piatto è originario di Puebla, i cui abitanti ne vanno molto fieri, ed è legato all'indipendenza del Messico.

Il Natale in Argentina si festeggia sotto al sole, mangiando l'asado, la carne alla griglia che si cucina nei giardini delle abitazioni per poi brindare con tutti con lo spumante.


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domenica 11 dicembre 2016

LA GIRAFFA



Le giraffe sono quattro volte più rare degli elefanti. Sembra che la carne di giraffa sia ricercata nella aree di conflitto come il sud Sudan. Alcune ricerche confermano la diffusione della dieta mediterranea, che duemila anni fa già faceva proseliti ai piedi del Vesuvio. E danno il quadro di una certa articolazione sociale, con abitazioni più modeste cui si affiancavano locande dove si servivano piatti più sofisticati. Cereali, frutta, noci, olive, lenticchie, pesce, uova di gallina, così come tagli minimi di carne più costosa e pesce salato dalla Spagna, ma anche piatti esotici come una gamba di giraffa «l' unica mai rinvenuta in uno scavo archeologico di età romana in Italia» ha commentato lo studioso secondo cui «il fatto che questa parte di animale macellato sia finita nella spazzatura di una cucina ci dice molto sul commercio a lunga distanza di animali esotici e sulla ricchezza e la varietà della dieta dell' epoca». Una cucina ricca, con il consumo anche di crostacei e ricci di mare. Così si mangiava a Pompei duemila anni fa.

Le giraffe sono sempre più cacciate dai bracconieri in quanto prede facili di cui si può mangiare la carne, come avviene ad esempio nella Repubblica democratica del Congo, oppure per trarne pozioni contro l'Aids, come avviene in Tanzania dove vi è una credenza legata al midollo osseo e al cervello di questo mammifero.




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martedì 1 novembre 2016

OSSA DEI MORTI



In tutta Italia per il giorno dei Morti si preparano dolci e leccornie che hanno in comune origini, per lo più propiziatorie, a volte magiche e apotropaiche, per placare le anime e ricevere da loro prosperità.

Sin dall’antichità, si credeva che uomini e dei fossero fatti della stessa sostanza. Espressione di ciò, era una comunità conviviale che faceva del pasto il sensale medianico verso l’aldilà. Così l’Ovidio dei Fasti:

Mos erat, et mensae credere adesse Deos
Credenza popolare diffusa è quella secondo cui le anime dei propri cari, nella notte precedente il 2 novembre, facessero ritorno sulla terra: così nelle case la tavola restava apparecchiata per tutta la notte, con sopra acqua e dolci, per permettere ai familiari “in viaggio” di rifocillarsi.

Ma spesso, proprio per quella alterità tra vivi e morti, si pensava che fossero i defunti stessi a far dono di leccornie, soprattutto ai più piccoli.

In Sicilia, una leggenda popolare racconta che i morti scendessero nella loro città terrena per rubare dolci ai pasticceri più ricchi e portarli ai piccoli di casa, così ancora oggi c’è l’usanza di cucinare dolcetti da donare ai bambini.
Da quest’ultima tradizione, discende l’uso “educativo” legato ancora oggi ai dolcetti dei morti: avvezzar i più piccoli all’arrivo inevitabile della morte, fungendo da ponte tra il mondo terreno e l’aldilà. Da tanti infatti, probabilmente per il difficile compito a cui erano stati chiamati ad assolvere, venivano considerati “dolcetti magici”.

Ma, accanto alle favole, c’è chi riconduce l’usanza delle “Ossa da morto” a una patrofagia simbolica, risalente al Medioevo (in quel tempo si usava la polvere di cranio per insaporire i cibi o per preparare filtri amorosi), di qui, il binomio durezza-ossa e l’espressione parmigiana “Os da mord”, per cui mangiando il biscotto sembra quasi di mordere un osso.

Forme, consistenze e colori, le Ossa da morto restano il dolce simbolo di una convivialità alimentare tra vivi e morti: un pasto povero e magico, che almeno una volta all’anno unisce il ricordo della morte al dolce senso della vita.

Duro e croccante, è un unico biscotto molto speziato, profuma di cannella e chiodi di garofano, composto da due "corpi" uno bianco, cavo, che si frantuma facilmente e che ricorda proprio le ossa, e uno scuro durissimo.



Ingredienti:

300g di zucchero semolato
275g farina 00
1 cucchiaio di miele millefiori
70 ml acqua
1/4 cucchiaino di cannella in polvere
1/4 cucchiaino di chiodi di garofano in polvere    

Procedimento:

Pesare tutti gli ingredienti e mettere la farina in un impastatrice o nel robot da cucina con le lame.
Scaldare l'acqua e quando arriva quasi ad ebollizione spegnere la fiamma e versarvi lo zucchero, il miele e le spezie. Si otterrà uno sciroppo granuloso dal momento che lo zucchero non può sciogliersi del tutto vista la concentrazione molto alta.
Lasciare intiepidire per 5 minuti e versare lo sciroppo a filo sulla farina facendo lavorare l'impastatrice. Impastare fino a quando non si otterrà un impasto sodo e omogeneo.
Trasferire su un piano da lavoro infarinato, dare la forma di una palla e ricavare subito tanti filoncini di circa 1,5-2 cm di diametro. Tagliare in diagonale a tocchetti di 3 cm di lunghezza. Decorare, se si vuole, imprimendo su ogni tocchetto i rebbi di una forchetta.

La tradizione vuole che questi tocchetti vadano messi ad asciugare sotto il sole, coperti da un velo, per almeno 3 giorni. Non devono essere mai capovolti. La parte inferiore deve restare umida.
Alternativamente si possono fare "asciugare" in forno un po' come delle meringhe.
Posizionare i tocchetti su una teglia rivestita di carta forno, accendere il forno e impostare la temperatura a minimo inserire la teglia nel forno e lasciare lo sportello un po' aperto per fare uscire l'umidità e lasciare asciugare per 2-3 ore facendo sempre attenzione alla temperatura.

Quando i tocchetti saranno diventati bianchi, trasferirli, distanziandoli, su una teglia rivestita di carta forno inumidita e strizzata ed infornare a 180°C per una decina di minuti.
Dalla base umida del guscio bianco secco fuoriescerà l'interno (data l'alta percentuale di zucchero questo fonde e fuoriesce) dando vita quasi ad un nuovo biscotto attaccato al guscio.

Si conservano per settimane in una scatola di latta o in un barattolo di vetro chiuso ermeticamente.

Il nome ossa dovrebbe ricordare per consitenza (dura) e per forma appunto le ossa dei nostri defunti. La consistenza è croccante e gustosa.

Biscotti decorati in pastafrolla, le “Ossa” sono il simbolo di un dialogo coi defunti che accomuna non poche tavole dello Stivale.
Ossa dei morti, Òs äd mort, crozzi ‘i mottu e mustazzuòli: i dolcetti garofanati sono diffusi soprattutto a Parma e in Sicilia, ma anche a Montepulciano, Montalcino, Piemonte e Lombardia.
Rotondi, friabili e decorati, o dalla forma allungata e croccante, le Ossa dei morti sono dolci tipici caserecci e nel passato conventuali, per gli ingredienti che oggi definiremo poveri, ma un tempo, almeno sino all’Ottocento, privilegio di ricchi e religiosi.

Farina, zucchero e cannella, i tre elementi comuni che ritroviamo in quasi tutte le varianti regionali.
La loro preparazione richiede dai 2 ai 4 giorni di lavoro: di qui la ritualità paziente di un cibo tra il sacro e il profano. Tipica in tutte le regioni è l’unione del gusto dolce con il sapore speziato di cannella o garofano, e spesso di mandorle e frutta secca, come in Piemonte, da accompagnare con un vino passito naturale.

Tipicamente parmigiane, le Ossa dei morti vengono preparate con l’aggiunta di mandorle tritate, dando una forma allungata simile all’osso (molte “rezdore” ancora oggi danno forme che ricordano le varie ossa). Curioso è l’uso dell’ingrediente siciliano, presente anche nelle ricette delle famose “Scarpette di Sant’Ilario”, dedicate il 13 gennaio al patrono della città ducale, e nelle fave dei morti: pasticcini a base di mandorle tritate e scorze di limone, che prima del favismo venivano cucinate coi semi di fava secca, considerata per le sue lunghe radici un tramite con il mondo ultraterreno.

Nelle Marche e in alcune località della Sicilia, fino a non molti anni fa le strade che conducevano ai cimiteri erano punteggiate da bancarelle che vendevano proprio gli squisiti dolcetti alla mandorla.



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IL PAN DEI MORTI



Il pane dei morti, in spagnolo "pan de muerto", è un tipo di pane preparato nel Messico nelle settimane prima della festa conosciuta come il "Giorno dei morti". È basato su una semplice ricetta per pane dolce con semi di anice, che varia in base alla regione. Nel Messico centrale è di forma tonda, con pezzi che assomigliano a ossi.

Secondo la tradizione deve essere collocato sull'altare dei morti come un gesto di benvenuto. Si crede che le anime dei morti consumino l'"essenza" del cibo.

Ne La mixteca è data al pane una forma umana. Viene cosparsa con lo zucchero bianco per i bambini uccisi o rosso per gli adulti.

Il pan dei morti è un'antica ricetta, originaria del milanese e diffusa  in varie zone dell’Italia del Nord, tipica del periodo della ricorrenza dei defunti. Il pan dei morti, infatti, veniva preparato e mangiato per rendere omaggio alle persone care scomparse.
In realtà questo rito dell'offerta era già presente in tempi molto antichi: i Greci, ad esempio, offrivano un pane dei morti a Demetra, la Dea delle messi, per assicurarsi un buon raccolto. Ancora oggi, in molte zone d'Italia è una cosa comune mettere a tavola e servire, anche per le persone defunte, il pan dei morti.
In Toscana, le ricorrenze dei morti e dei santi sono molto sentite: per questo motivo la produzione di questo dolce è molto intensa e di grande tradizione, tanto che si può affermare che il pan dei morti sia diventato anche un dolce tipico toscano.
In ogni caso, al giorno d'oggi, forse per il suo nome un po’ lugubre, è uno dei dolci legati alla festa di Halloween, la notte delle streghe.

Sono, probabilmente, da ricercare nella cultura contadina le origini delle credenze popolari legate alla commemorazione dei defunti. In Lombardia, e soprattutto nella zona di Milano, ad esempio, si riteneva che, ogni anno, con la stessa ciclicità del lavoro sui campi, le anime dei cari estinti si ripresentassero nelle loro case abbandonando temporaneamente l'oltretomba. Per offrire loro ristoro e per render loro omaggio durante queste visite, si era soliti preparare del pane dolce tradizionale da mettere in tavola come se i defunti dovessero accomodarsi assieme ai loro parenti ancora in vita. La ricetta che veniva preparata per l'occasione, non a caso, veniva, e viene ancora, chiamata Pane dei Morti, una sostanziosa prelibatezza a base di biscotti secchi sbriciolati, cacao e frutta secca. I soli ingredienti evocano l'evidente necessità di ricavare un alimento nutriente utilizzando ciò che si trovava in casa e, come spesso avviene per numerosi piatti della tradizione povera, il risultato era comunque estremamente gustoso. Nel corso del tempo anche la ricetta del Pan dei Morti, come molte altre dalle origini simili, ha subito delle modifiche adattandosi ai gusti e agli ingredienti reperibili durante i diversi periodi storici, ma l'idea di fondo è rimasta la stessa ed oggi, nel Milanese, questi panini sono diventati il dolce tradizionale del 2 novembre ed anche dell'ormai gettonatissima festa di Halloween.



Le caratteristiche distintive di questi dolcetti sono, certamente, l'utilizzo di biscotti sbriciolati e frutta secca. Le modifiche apportate nel corso del tempo hanno favorito l'aggiunta di nuovi ingredienti precedentemente non conosciuti o difficilmente reperibili, come le mandorle,il cacao o lo zucchero a velo. Oggi come un tempo, però, i Pani dei morti si presentano di forma ovale leggermente schiacciata e di dimensioni variabili in base alle preferenze.

Ingredienti: 500 grammi di biscotti secchi, 300 grammi di zucchero, 250 grammi di farina tipo “00”, 100 grammi di uvetta, 100 grammi di fichi secchi, 50 grammi di canditi, 50 grammi di mandorle, 4 albumi, 1 bicchiere di vino, ½ bustina di lievito, 2 cucchiai di cacao amaro, cannella. Tritare i biscotti assieme alle mandorle, ai fichi e ai canditi. Aggiungere, quindi, la farina, lo zucchero, la cannella, il cacao, il lievito e l'uvetta ammorbidita per circa 15 minuti in acqua o liquore e mescolare il tutto. Introdurre nel composto anche gli albumi ed il vino del quale si potrà aumentare lievemente la dose se l'impasto dovesse risultare ancora troppo secco. Formare dei panini ovali schiacciati, ed infornarli per circa 30 minuti ad una temperatura di 180°.



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mercoledì 19 ottobre 2016

ASSENZIO



L'assenzio fu inventato da un medico francese, Pierre Ordinaire, che in fuga dalla Rivoluzione francese si trasferì a Couvet (Svizzera) nel 1792. Tra le erbe officinali della zona, che i medici di campagna dell'epoca utilizzavano per preparare rimedi naturali, trovò l'assenzio maggiore, di cui conosceva l'uso nei tempi antichi. Sperimentando con questa pianta iniziò a produrre un forte distillato da circa 60°, contenente oltre all'assenzio molte altre erbe tra cui anice, issopo, dittamo, acoro e melissa. Il liquore di Ordinaire divenne un famoso toccasana a Couvet e assunse già il soprannome la Fée Verte (la Fata Verde). Si pensa che alla sua morte ne tramandò la ricetta segreta alle sorelle Henriod di Couvet, ma è possibile che in realtà le Henriod producessero il proprio assenzio già da prima di Ordinaire.

Nel corso del XIX secolo si diffusero in Francia e Svizzera molte distillerie di assenzio con vari marchi, ma il liquore divenne particolarmente noto alla fine del secolo, grazie alla fama che ebbe tra gli artisti e gli scrittori di Parigi. L'assenzio, consumato da molti artisti famosi con rituali elaborati e accessori stravaganti, divenne un'ispirazione dello stile di vita bohémien. La bevanda ebbe enorme successo in Europa, ma declinò nel giro di poco più di un decennio, a causa di vari fattori: il movimento contro l'alcolismo che si diffuse all'inizio del XX secolo, gli studi scientifici dell'epoca che individuarono la pericolosità del tujone contenuto, e le pressioni dei produttori di vino francesi che ne temevano la concorrenza.

Essendo generalmente di colore verde (naturalmente o mediante l'uso di coloranti), l'assenzio si è affermato anche con l'epiteto Fée Verte (Fata Verde). Viene generalmente bevuto aggiungendo dell'acqua ghiacciata e/o dello zucchero.

L’assenzio, delizioso liquore verde, è diventato celebre per la sua storia, che si intreccia con quella dei più controversi e apprezzati artisti dello scorso secolo. Rimasto proibito per molti anni è in realtà un ottimo distillato. La sua pericolosità è più una leggenda, nata a causa delle sostanze tossiche come sali di rame, tintura di anilina e antimonio tricloruro che venivano aggiunti per raggiungere stati di incoscienza; ma a dare all’assenzio la fama di stravolgere mente e spirito hanno contribuito anche l’elevata gradazione alcolica e la presenza del tujone.

Assenzio, anice e altre erbe, come menta, finocchio, melissa, issopo e angelica, vengono messe a macerare in alcool per un paio di settimane e al termine della macerazione si procede con la distillazione con l’alambicco in rame o acciaio.
Il prezioso liquido ottenuto, del tutto trasparente, viene colorato con erbe e zuccherato: si ottiene un liquore sciropposo e dal colore verde acceso in trasparenza.

L’assenzio ha una gradazione alcolica che si aggira tra i 40° e i 70°, da diluire in bicchiere, e proprietà organolettiche particolari. Al primo assaggio colpisce il gusto persistente dell’anice, ma in un secondo momento esplode al palato il ricco bouquet di erbe aromatiche che spazia dalla della menta e liquirizia all’arancia amara e alla melissa. Si percepiscono sentori erbacei, legnosi e agrumati che si accompagnano al principale aroma di anice e menta.

Il modo francese, originale e classico, utilizzato dai poeti maledetti, prevede di versare il liquore nel bicchiere dove viene poi appoggiato il tipico cucchiaino piatto traforato con una zolletta di zucchero. Si versa acqua gelata sopra la zolletta in modo da farla sciogliere lentamente nell’assenzio che inizierà l’effetto louche, diventando lattiginoso. Infine si mescola e si aggiunge del ghiaccio, l’acqua versata dovrebbe essere tre volte la quantità di assenzio.
Molto famoso è il metodo ceco, diffusosi nel XX secolo per attirare i turisti e dunque non originale, che prevede di incendiare la zolletta di zucchero imbevuta di assenzio provocando una fiamma. Prima che lo zucchero caramelli si versa l’acqua fredda e si mescola.

Varietà meno pregiate di questa bevanda sono fatte per mezzo di essenze o olii mischiati a freddo nell'alcool.

Storicamente, c'erano 4 varietà di assenzio: ordinario, semi-eccellente, eccellente, e superiore o svizzero, l'ultima delle quali aveva un tenore alcolico maggiore rispetto alle altre. Il miglior assenzio contiene dal 65% al 75% di alcol. Nel diciannovesimo secolo l'assenzio, come molti cibi e bevande del tempo, era occasionalmente contraffatto da affaristi con rame, zinco, indaco, o altre sostanze coloranti per conferirgli il colore verde; questo non fu ovviamente mai fatto dalle migliori distillerie.

Sembrerebbe una tesi priva di fondamento, sorta con l'intenzione di attribuire all'assenzio ottocentesco proprietà proprie di droghe diverse dall'alcol, quella secondo cui l'assenzio venisse in alcuni casi adulterato con oppio: non esiste infatti nessuna ricetta storica che ne parli. La diceria che l'assenzio venisse spesso bevuto con gocce di laudano nasce per lo più da esaltazioni dei media di rari casi storicamente documentati. Il laudano era assai poco diffuso e solo tra chi se lo poteva veramente permettere, e questi erano soliti utilizzarlo ovunque capitasse (il più delle volte nel vino): è possibile che costoro lo mettessero anche nell'assenzio, poiché l'assenzio era molto bevuto; quest'usanza è perciò da attribuire solo a pochi ricchi oppiomani.

La notevole popolarità che l'assenzio ebbe durante il XIX secolo (grazie anche a prezzi relativamente contenuti e accessibili a tutti i ceti) portò i produttori di vini, cognac e whisky a iniziare una vera e propria guerra contro l'assenzio, guerra che fu prontamente accolta dai governi per poter porre fine al diffuso alcolismo, piaga del XIX secolo francese.

Nei trattati sulla preparazione dell'assenzio di fine ottocento pervenuti, l'assenzio è prodotto solamente per distillazione.

Ogni distilleria utilizza la sua miscela di erbe. Alcune ricette prevedono dai 6 ai 12 ingredienti e ogni distilleria ha i suoi segreti. La base dell'absinthe resta tuttavia la stessa ed è comune a tutte le ricette: il distillato del macerato di artemisia absinthium, semi di anice verde e finocchio.

Nella fabbricazione degli alcolici è possibile trovare preparati con oli essenziali estratti dai vegetali in questione, anche nel caso dell'Assenzio, alcuni produttori utilizzano questo metodo. Ovviamente, si ottiene un prodotto differente da una distillazione diretta dei macerati; ma più economico per la commercializzazione.

L'Assenzio è fonte di discussione in Europa. Infatti il Parlamento Ue ha bocciato la proposta finalizzata a definire la bevanda, chiamata anche 'Fee Verte', o la fata verde, che più di ogni altro prodotto alcolico ha sollevato polemiche. Per 409 voti a favore, 247 contro e 19 astensioni, è arrivato il no dalla corte di Strasburgo. Quindi non esiste un parametro di riferimento per la produzione di questa bevanda.

Si pensava che un eccessivo uso di assenzio conducesse ad effetti che erano specificamente peggiori rispetto a quelli associati ad altre forme di alcol – il che è vero per alcuni dei prodotti meno meticolosamente adulterati (soprattutto quelli colorati con solfato di rame) –, creando lo stato fisico chiamato absintismo, che in realtà sorge soltanto alla stregua dell'alcolismo, da cui non si differenzia, in soggetti dipendenti da questa bevanda.

L'olio essenziale di Artemisia absinthium contiene un terpene chiamato tujone, il quale in dosi elevate può portare a crisi epilettiche, delirium tremens e morte. In realtà le quantità di intossicazione da tujone sono pari a 80-100 g, una quantità impossibile da assumere bevendo assenzio che normalmente non può contenere più di 30-40 mg/kg di tujone.



Un assenzio ben fatto, infatti, deve essere distillato, e gran parte del tujone che non si è perso nella fase di essiccazione dell'Artemisia absinthium (il tujone è estremamente volatile e un buon 70-80% evapora durante questa fase) si perde tagliando la "testa" del distillato. Studi più recenti hanno dimostrato che nell'assenzio distillato correttamente – anche in quelli prodotti seguendo le ricette ed i procedimenti tradizionali – rimane solo una minima quantità di tujone.

In realtà il mito del tujone è da sfatare, poiché già le argomentazioni dell'epoca, che permisero di mettere al bando l'assenzio, facevano riferimento a ben tre sostanze: tujone, anetolo e fenitolo. Probabilmente il tujone è rimasto l'unico componente che crea scalpore, poiché anetolo e fenitolo, che sono tossici tanto quanto il tujone e altre sostanze presenti in comunissime piante di uso quotidiano (come prezzemolo, alloro, rosmarino, noce moscata ecc.), erano più facilmente riscontrabili in molti amari e anisette. Il tujone al contrario era esclusiva di assenzio, vermouth e genepì (che non vennero tuttavia mai incriminati come l'assenzio).

La grafia non francese della parola "Absinth" venne introdotta per le bevande a base di assenzio prodotte nell'Europa centrale (fino all'inizio degli anni novanta). Questi prodotti in realtà avevano a malapena il nome in comune con l'assenzio del XIX secolo. Tipicamente, il basso contenuto di erbe presente in queste bevande impedisce la formazione del "louche".

La leggenda dell'assenzio è resa intrigante proprio da quanto si narra circa il tujone, peraltro uno dei tantissimi oli essenziali presenti.

Sono pochi gli studi scientifici inerenti quest'olio essenziale, e molti di questi non sono oggettivi poiché finanziati all'inizio del XX secolo proprio dai governi che volevano mettere l'assenzio al bando.

Studi condotti negli anni '70 hanno portato (probabilmente in modo erroneo) a considerare il tujone (e i suoi effetti) simili a quelli del THC della cannabis solo perché le due molecole avevano una disposizione spaziale molto simile.

Il tujone in verità è un terpene presente in diverse piante come le artemisie (tra cui l'Artemisia absinthium, ma anche il genepì, ovvero l'Artemisia glacialis) e le salvie (anche la Salvia officinalis usata in cucina). Il suo profumo è molto simile a quello del mentolo e lo troviamo tra gli eccipienti del farmaco da banco "Vicks Vaporub". Ad alti dosaggi il tujone ha effetti devastanti sul sistema nervoso: difficile è definire quali siano questi "alti dosaggi". Gli esperimenti scientifici descrivevano che bastava un grammo di tujone iniettato in vena ad una cavia di laboratorio per portare l'animale al delirium tremens; talvolta, la cavia moriva.

Nell'uomo, il cui peso è notevolmente più grande di quello di una cavia, la forza di resistenza è decisamente superiore: un grammo di tujone iniettato in un porcellino d'India equivarrebbe a 100 grammi per un uomo; non ci sarebbe da meravigliarsi se l'iniezione improvvisa di 100 grammi di tujone in un corpo umano potesse avere come conseguenza disturbi seri o addirittura la morte.

Tuttavia stando ai dati sopra riportati gli assenzi hanno sempre avuto quantità tali di tujone che una persona, per assumerne tali quantità, dovrebbe bere un centinaio di litri di assenzio. Va da sé che l'alcool porterebbe a danni gravi ben prima.

Stesso discorso vale per gli altri due oli essenziali condannati a suo tempo: l'anetolo, ricavato dall'anice e il fenitolo, ricavato dal finocchio.

È vero che la pianta Artemisia absinthium contiene moltissimo tujone, ma questo viene perso quasi tutto per evaporazione durante l'essiccazione, e altro tujone ancora si perde nella "testa" della distillazione. È quindi incorretto stimare, come fece nel 1989 Wilfred Arnold, che gli assenzi storici avessero 250 mg/kg di tujone. Arnold fece questa stima considerando la pianta fresca, senza calcolare né l'essiccazione né la distillazione.

Un noto chimico e biologo americano, Ted Breaux, ha passato gli ultimi 11 anni a studiare l'assenzio per capire se veramente fosse quel veleno che le leggende narrano. Egli estrasse con una siringa l'assenzio da antiche bottiglie del XIX secolo arrivate intatte fino ai nostri giorni e le analizzò. I risultati furono stupefacenti: gran parte degli assenzi d'epoca avevano tujone che andava dai 5 ai 9 mg/kg, e solo qualcuno sfiorava i 20–30 mg/kg. Considerando che le normative CEE permettono un limite massimo di 35 mg/kg di tujone, gran parte degli assenzi storici sarebbe tuttora legale da questo punto di vista.

Non tutto l'assenzio è verde. Anche in passato non tutti gli assenzi erano verdi. Considerando solo i veri assenzi e non quei pericolosi surrogati che già in passato circolavano, i colori andavano dal giallino fino al verde smeraldo, passando per tutte le gradazioni di verde. Alcuni erano lasciati addirittura incolore: questa tipologia ebbe una maggiore diffusione dopo la messa al bando perché più facile da contrabbandare.

Tenendo presente che in un vero assenzio la fase più delicata e complessa è proprio la colorazione, va da sé che gran parte degli assenzi colorati di verdi sgargianti e cristallini non siano vero assenzio, ma qualche surrogato colorato artificialmente; sono davvero pochi ai nostri giorni i veri assenzi, colorati naturalmente come vuole la tradizione, ad essere davvero verdi, e molto spesso sono piuttosto costosi.

L'assenzio per essere definito tale deve assolutamente essere distillato. Non esiste vero assenzio solo macerato o fatto con aggiunta di oli essenziali ed essenze all'alcool, e alcuni produttori senza scrupoli, sapendo che il bevitore di assenzio tende a scartare quei prodotti ottenuti con oli essenziali aggiunti, dichiarano di produrre assenzio distillato semplicemente perché loro stessi preparano gli oli essenziali. Per assenzio distillato al contrario si intendono solamente quegli assenzi distillati direttamente dalle erbe.

La differenza al palato tra un assenzio distillato e uno macerato o fatto con oli essenziali è enorme. I macerati tendono ad essere pesanti e invasivi esattamente come quelli fatti con oli essenziali che inoltre lasciano uno sgradevole senso di "unto" al palato.

Un vero assenzio deve contenere semi di anice verde. L'anice stellato è un ingrediente tipico dei pastis e raramente veniva usato negli assenzi e solo in minime quantità.

L'anice verde ha un sapore molto aromatico, profumato e secco, mentre l'anice stellato (probabilmente l'anice per come è conosciuto in Italia, quello usato per le caramelle e per la sambuca) è estremamente morbido e rotondo e con un sapore che ricorda molto la liquirizia.

Il sapore simile alla liquirizia che si possono notare nei veri assenzi non è dato tanto dall'anice stellato bensì dai semi di finocchio.

Gli assenzi di nuova generazione tendono ad utilizzare enormi quantità di anice stellato, tanto da rendere il sapore generale monotematico.

In un vero assenzio al contrario si devono trovare i profumi e gli aromi di tutte le erbe, per lo meno di quelle principali: l'amarezza piacevole dell'artemisia absinthium nel retrogusto, la morbidezza del finocchio, l'aroma di anice verde, quell'aspetto erbaceo unico dato dall'issopo, la melissa, il coriandolo.

Il sapore dell'assenzio dovrebbe essere un continuo rincorrersi di aromi perfettamente bilanciati: nessun ingrediente dovrebbe dominare.

Gran parte dei prodotti moderni non sono troppo diversi dai pastis, ma ce ne sono anche di qualità, specie se seguono ricette e metodi di distillazione originali.

L'assenzio viene prodotto dall'alcool di vino prodotto esattamente come nell'800 partendo da uve coltivate esattamente come se fossero coltivate negli anni d'oro dell'assenzio e da erbe selvatiche raccolte solo nel periodo di massima maturazione. Anche l'imbottigliamento è autentico: bottiglie dalla forma che rispecchia l'antica bottiglia di absinthe, etichette che ricalcano quasi perfettamente le etichette degli assenzi a cui si rifanno, tappo in sughero e cera lacca.

Dopo la diffusione della notizia secondo cui alcuni crimini violenti sarebbero stati commessi sotto l'influenza diretta della bevanda (risultata successivamente essere falsa, perché questi crimini erano in realtà stati commessi da persone ubriache, che avevano bevuto molto più che i due bicchieri della leggenda) e alla tendenza generale al consumo di superalcolici a causa della carenza di vino in Francia causata dalla fillossera negli anni tra il 1880 e il 1900, le associazioni contro l'uso di alcoolici e quelle dei produttori di vini presero di mira l'assenzio indicandolo come una minaccia sociale.

Affermarono che rende folli e criminali, trasforma gli uomini in selvaggi e costituisce una minaccia per il nostro futuro. Il dipinto di Edgar Degas, L'assenzio, risalente al 1876 (ora conservato al Museo d'Orsay), riassunse la mentalità popolare che vedeva i bevitori "dipendenti" di assenzio come istupiditi e mentalmente offuscati. Émile Zola descrisse le loro gravi intossicazioni nel suo romanzo L'ammazzatoio. Nel 1915 l'assenzio venne ritirato dal commercio in molti paesi e la sua produzione vietata.

Recentemente l'Unione europea ha legalizzato il commercio di assenzio e liquori simili; comunque sono presenti accurati controlli sul livello di tujone presente.

La proibizione dell'assenzio in Francia comportò la nascita di un sostituto dell'assenzio a base di anice stellato (raramente presente nell'assenzio del XIX secolo ma comunissimo nei moderni prodotti) al posto dei semi di anice verde e liquirizia: il pastis. Il pastis, come tutti i liquori a base d'anice furono soggetti a severissimi controlli nei primi anni che ne limitavano la qualità al fine di allontanarli sempre più dal vituperato assenzio: la gradazione alcolica non poteva superare i 32°, non doveva intorbidire con aggiunta di acqua. Successivamente la gradazione alcolica venne portata a 40° ma durante il secondo conflitto mondiale il governo francese proibì i pastis poiché intorbidivano le menti dei soldati in trincea. Solo nel 1951 venne rilegalizzato e per festeggiare tale data la Pernod-Ricard (la multinazionale nata dall'aggregamento di alcune delle più importanti distillerie d'assenzio) mise sul mercato il Pastis51.

La Francia non ha mai abrogato la legge del 1915, ma una legge del 1988 ha chiarito che il divieto riguarda solo le bevande non conformi con le regolamentazioni dell'Unione europea riguardo al contenuto di tujone, o che sono chiamate esplicitamente "assenzio". Questo ha provocato una ricomparsa dei bevitori francesi di assenzio, ora rinominato "spirito a base di piante d'assenzio". Dal momento che la legge del 1915 regolava solo la vendita dell'assenzio ma non la sua produzione, certe aziende francesi producono varianti destinate all'esportazione denominate semplicemente "assenzio".

I primi assenzi a tornare sul mercato erano in realtà poco più di pastis "arricchiti" con ulteriori erbe e a volte aumentati di gradazione.

Man mano che la popolarità di questa nuova generazione di assenzi cresceva, le vecchie distillerie iniziarono a distillare in segreto i loro antichi assenzi, li fecero analizzare e con lo stupore di tutti potevano essere tranquillamente commercializzati poiché il quantitativo di tujone era ben sotto i limiti previsti (la legge prevede 10 mg/kg di tujone per i liquori e 35 mg/kg di tujone per gli amari. Poiché l'assenzio può a tutti gli effetti rientrare nella categoria "amari" il limite è veramente ampio. Non sono noti assenzi del XIX secolo che superassero queste quantità).

Con le direttive 88/388/CEE e 91/71/CEE relative agli aromi destinati a essere impiegati nei prodotti alimentari e ai materiali di base per la loro preparazione, il Consiglio dell'Unione europea e la Commissione europea hanno, tra le altre cose, tolto all'assenzio la condizione d'illegalità, permettendo così ai vari Stati membri di adottare normative che riportassero tale distillato nel libero commercio.

In attuazione di tali direttive, il Governo Andreotti VII ha emanato il Decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 107 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 39 del 17 febbraio 1992 (Supplemento Ordinario n. 31) ed entrato in vigore il 3 marzo 1992.

Le sue successive modificazioni e integrazioni non hanno sostanzialmente cambiato, nei riguardi dell'assenzio, tale quadro normativo permissivo.

In Italia, in precedenza, in base all'Art. 105 del TULPS vigeva invece un divieto di fabbricazione, importazione e distribuzione per l'assenzio e per le altre bevande la cui gradazione alcolica era superiore al 21%, se aromatizzate con assenzio.

Nei Paesi Bassi una legge datata 1909 proibì la vendita e il consumo di assenzio, ma questa legge fu sfidata con successo da un venditore di vino, tale Menno Boorsma, nel luglio 2004, facendo tornare l'assenzio ancora una volta legale. Tuttavia, i querelanti fecero appello e quindi ci dovrà essere un secondo processo in una corte di livello superiore.

L'assenzio non venne mai vietato in Spagna o Portogallo, dove continua ad essere prodotto.

Negli anni novanta un importatore, BBH Spirits, si accorse che non c'era nessuna legge riguardo alla vendita di assenzio nel Regno Unito (non era mai stato vietato), a parte le regolamentazioni presenti su tutte le bevande alcoliche, e divenne nuovamente disponibile per la prima volta dopo quasi un secolo (anche se tassato in modo proibitivo a causa dell'elevato contenuto di etanolo).

In base a quanto sancito dal United States Customs, «l'importazione di assenzio o altro tipo di liquore contenente Artemisia absinthium è proibita».

L'interpretazione della legge statunitense condivisa dalla maggior parte dei bevitori di assenzio è questa:

È probabilmente illegale vendere prodotti destinati al consumo che contengono absintolo derivato dalla specie dell'artemisia. Questo deriva da un regolamento della Food and Drug Administration (in contrasto con un regolamento della Drug Enforcement Administration).
È probabilmente illegale per uno straniero vendere tali prodotti ad un cittadino statunitense, dal momento che i regolamenti doganali vietano specificatamente l'importazione di "assenzio".
È probabilmente legale comprare tali prodotti per uso personale negli Stati Uniti.
L'assenzio può essere e talvolta è confiscato dalla dogana americana, se sembra essere destinato al consumo.
Un falso-assenzio chiamato Absente, prodotto con Artemisia abrotanum invece che con Artemisia absinthium (assenzio), viene venduto legalmente negli Stati Uniti, sebbene la proibizione della FDA si estenda a tutte le specie di Artemisia, inclusa quindi, in teoria, l'Artemisia dracunculus, conosciuta come dragoncello. Ad ogni modo, l'Absente viene venduto nei negozi di liquore al dettaglio perché la qualità esportabile fatta per gli Stati Uniti non contiene assenzio.

In Svizzera, la proibizione dell'assenzio fu addirittura scritta nella costituzione nel 1907, in seguito a una iniziativa popolare. Nel 2000 questo articolo fu sostituito durante una revisione generale della costituzione, ma la proibizione fu semplicemente spostata nel codice di legge ordinaria. Successivamente questa legge fu revocata, così il 1º marzo 2005, l'assenzio divenne ancora legale nel suo paese d'origine, dopo circa cento anni di proibizione.




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domenica 16 ottobre 2016

OLIO DI PALMA



L'olio di palma è sempre stato molto usato nei paesi dell'Africa occidentale come olio alimentare. I mercanti europei che commerciavano in quei luoghi talvolta lo importavano in Europa, ma poiché l'olio era abbondante ed economico, l'olio di palma rimase raro fuori dall'Africa occidentale. Nella regione di Ashanti, schiavi di stato furono usati per impiantare vaste piantagioni di palme da olio, mentre nel vicino Dahomey (l'attuale Benin) re Ghezo, nel 1856, approvò una legge che vietava ai suoi sudditi di tagliare palme da olio.

L'olio di palma in seguito divenne un prodotto molto commerciato dai mercanti britannici per il suo uso come lubrificante per le macchine della rivoluzione industriale, e come materia prima per prodotti a base di sapone come il Sunlight della Lever Brothers (a partire dal 1884) e il sapone statunitense Palmolive.

La palma da olio fu introdotta nel 1848 dagli olandesi nell'isola di Giava, e nel 1910 in Malesia dallo scozzese William Sime e dal banchiere inglese Henry Darby. Le prime piantagioni furono istituite e gestite soprattutto da britannici come Sime Darby. A partire dagli anni sessanta il governo promosse un grande piano di coltivazione della palma da olio con lo scopo di combattere la povertà. A ciascun colono venivano assegnati circa 4 ettari di terra da coltivare con palma da olio o gomma, e 20 anni per ripagare il debito. Le grandi società di coltivazione rimasero quotate nella Borsa di Londra finché il governo malese non promosse la loro nazionalizzazione negli anni '60 e '70.

In Malesia, paese dove si produce il 39% della produzione mondiale di olio di palma, ha sede uno dei più importanti centri di ricerca sugli oli e grassi di palma al mondo, il Palm Oil Research Institute of Malaysia (Porim), fondato da B. C. Shekhar.

La palma è usata anche nella produzione di biodiesel, o come olio di palma poco raffinato miscelato con gasolio convenzionale, oppure lavorato mediante transesterificazione per produrre un estere di metile dell'olio di palma che rispetta le norme EN 14214, con glicerolo come sottoprodotto. Il procedimento usato varia a seconda della nazione e delle esigenze dei mercati di esportazione. Si stanno anche sperimentando, anche se in piccole quantità, processi produttivi di biocarburante di seconda generazione.

Pur essendo in teoria una fonte di energia rinnovabile, il carburante da olio di palma è osteggiato da diverse associazioni ambientaliste a causa degli effetti collaterali della sua produzione, che includono la necessità di convertire alla coltivazione di palme aree ecologicamente importanti come zone di foresta pluviale o aree precedentemente adibite alla produzione alimentare. Inoltre, la monocoltura di palme da olio può produrre considerevoli emissioni di carbonio; in Indonesia e Papua Nuova Guinea, per esempio, il terreno per la coltivazione è stato preparato spesso drenando e dando alle fiamme aree di foresta palustre e torbiera, con un conseguente rilevante danno ambientale, ed è stato valutato che anche in seguito a questi fenomeni l'Indonesia sia diventata il terzo emettitore mondiale di gas serra, inoltre la deforestazione minaccia d'estinzione gli orango, diffusi solo in quelle aree. Secondo il rapporto congiunto della Banca Mondiale e del Governo britannico, il solo settore forestale indonesiano sarebbe responsabile del rilascio in atmosfera di 2,563 MtCO2e (Metric Tonne (ton) Carbon Dioxide Equivalent). Secondo il Rapporto quinquennale FAO sulle foreste del 2007, la sola Indonesia perde un milione di ettari all'anno di foreste pluviali. La United States Environmental Protection Agency (EPA) ha escluso il biodiesel da olio di palma dai combustibili ecologici, proprio perché l'impronta di carbonio derivante dalla sua produzione non permette la riduzione del 20% richiesta per le emissioni dei biocarburanti: l'olio di palma ha costi ambientali elevatissimi alla produzione.
Anche in Africa la palma da olio inizia ad espandersi nelle regioni forestali, minacciando importanti ecosistemi; questo è il caso per esempio della Costa d'Avorio, dell'Uganda e del Camerun.

Gli oli di palma e di palmisto sono ingredienti alimentari molto comuni nelle regioni di produzione. In Europa e Nord America progressivamente dalla seconda metà del XX secolo, per motivi commerciali, si sono diffusi nell'industria alimentare come succedanei di altri ingredienti più costosi. La sostituzione è stata resa possibile da un analogo comportamento organolettico e produttivo, spesso a scapito delle caratteristiche nutrizionali.
Infatti, pur se comparabili ad altri grassi per alcuni parametri, come il grado di saturazione (analogo ad esempi al burro con circa il 50% di saturazione), sono differenti per altri, come la lunghezza delle catene degli acidi grassi (differente ad esempio dal burro, che è ricco di volatili a corta catena da cui il termine butirrico, C4), o la posizione sostituente sul glicerolo, parametri che ne modificano il percorso metabolico nell'uso alimentare. Gli acidi grassi a corta e media catena, solubili in acqua, si assorbono infatti a livello intestinale per proseguire nel fegato il processo metabolico, senza passare dalla fase di chilomicroni e dalle vie linfatiche dei grassi più pesanti.

Il grande uso dell'olio di palma nell'industria alimentare del resto del mondo si spiega quindi col suo basso costo, che lo rende uno degli oli vegetali o alimentari più economici sul mercato, e coi nuovi mercati emersi negli USA, stimolati da una ricerca di alternative agli acidi grassi trans dopo che la Food and Drug Administration ha imposto di mostrare la quantità di acidi grassi trans contenuti in ogni porzione servita.

Alcuni Paesi, come il Belgio, alla fine del 2013, hanno consigliato un uso limitato dell'olio di palma.

Con l'entrata in vigore del Regolamento UE 1169/2011, dal 2015 è obbligatorio indicare in chiaro, nelle etichette dei prodotti alimentari prodotti nell'Unione europea, la specifica origine di oli e grassi vegetale e, di conseguenza, dichiarare l'utilizzo anche dell'olio di palma.

Il 3 maggio 2016 si è pronunciatal’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). E’ stato pubblicato un dossier che conferma i possibili rischi sulla salute connessi ad alcune sostanze potenzialmente cancerogene che si formano durante la raffinazione ad alte temperature (200°) degli oli vegetali, tra cui anche (ma non solo) l’olio di palma.

Stiamo parlando dei contaminanti da processo a base di glicerolo presenti nell’olio di palma, in altri oli vegetali, nelle margarine e in alcuni prodotti alimentari. Si tratta dei glicidil esteri degli acidi grassi (Ge), 3-monocloropropandiolo (3-mpcd), 2-monocloropropandiolo (2-mpcd) e relativi esteri degli acidi grassi.

Secondo il parere dell’Efsa queste sostanze «suscitano potenziali problemi di salute per il consumatore medio di tutte le fasce d’età giovane e per i forti consumatori di tutte le fasce d’età».

Il gruppo di esperti scientifici dell’Efsa sui contaminanti nella catena alimentare (Contam) ha esaminato le informazioni sulla tossicità del glicidolo per valutare il rischio dai Ge, ipotizzando una conversione completa degli esteri in glicidolo dopo l’ingestione.

Quest’ultimo è noto per avere potenziali effetti cancerogeni e genotossici;  con questo secondo termine si intende la capacità di danneggiare le informazioni genetiche all’interno delle cellule, un fenomeno all’origine di mutazioni che possono degenerare in cancro.

L’Efsa ha messo in relazione il rischio per la salute alle quantità di contaminanti consumate quotidianamente, concentrando soprattutto l’attenzione sui più giovani.

La questione riguarda gli oli vegetali nel loro complesso, le margarine e altri prodotti alimentari ma soprattutto l’olio di palma. Questo ultimo è finito nel mirino perché contiene quantità nettamente più elevate di queste sostanze potenzialmente nocive rispetto agli altri ingredienti citati.

I più elevati livelli di Ge, come pure di 3-mcpd e 2-mcpd (compresi gli esteri) sono stati infatti riscontrati in oli di palma e grassi di palma. Per i consumatori a partire dai tre anni di età, le principali fonti di esposizione a tutte le sostanze sono rappresentate da margarine, dolci e torte.

Nel valutare le sostanze genotossiche e cancerogene che sono presenti accidentalmente nella catena alimentare, l’Efsa calcola un cosiddetto “margine di esposizione” per i consumatori.

In generale, più tale margine è elevato più si può star sicuri. In merito al 3-mcpd e relativi esteri degli acidi grassi è stata stabilita una dose giornaliera tollerabile (Dgt) di 0,8 microgrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno (µg/kg di peso corporeo/giorno), mentre per il 2 mcpd le informazioni tossicologiche sono ancora troppo limitate per stabilire un livello sicuro.

Le conclusioni del dossier sono chiare: la stima delle esposizioni medie ed elevate al 3-mcpd di entrambe le forme per le fasce di età più giovani, adolescenti compresi (fino ai 18 anni di età), supera la dose giornaliera tollerabile e costituisce un potenziale rischio per la salute.

L’olio di palma contribuisce in maniera rilevante all’esposizione a 3-mcpd e 2-mcpd nella maggior parte dei soggetti. Non c’è da star troppo tranquilli, perché l’Efsa ha rilevato che i livelli di 3-mcpd e dei suoi esteri degli acidi grassi negli oli vegetali sono rimasti sostanzialmente invariati negli ultimi cinque anni.

In conclusione, il gruppo di esperti sui contaminanti nella catena alimentare evidenzia che i Ge costituiscono un potenziale problema di salute per tutte le fasce d’età più giovani e mediamente esposte, nonché per i consumatori di tutte le età con esposizione elevata.

L’esposizione ai Ge dei neonati che consumino esclusivamente alimenti per lattanti costituisce motivo di particolare preoccupazione, in quanto è fino a dieci volte il livello considerato a basso rischio per la salute pubblica», ha affermato la dottoressa Helle Knutsen, presidente del gruppo Contam.

In questo quadro tutt’altro che rassicurante c’è per fortuna anche una buona notizia:

il dossier ha rilevato un dimezzamento dei livelli di Ge negli oli e grassi di palma tra il 2010 e il 2015, grazie a quelle misure adottate volontariamente dai produttori che hanno permesso una notevole diminuzione dell’esposizione dei consumatori a queste sostanze nocive.
Il gruppo scientifico ha espresso una serie di raccomandazioni affinché si conducano ulteriori ricerche per colmare le lacune nei dati e approfondire le conoscenze sulla tossicità di queste sostanze (in particolare di 2mcpd) e sull’esposizione dei consumatori.



L’olio di palma è un olio vegetale non idrogenato che si ricava dall’omonimo arbusto, Elaeis guineensis, una pianta originaria dell’ Africa e oggi ampiamente coltivata in Malesia e Indonesia.

Dopo la spremitura, l’olio di palma grezzo viene raffinato con processi industriali per ridurne anche il grado di acidità.

Subisce fasi industriali di deodorazione, decolorazione e neutralizzazione che ne fanno perdere le proprietà benefiche.

La maggior parte dell’olio di palma si ottiene al giorno d’oggi da una tipologia di palma.  La  Elaeis guineensis che pur essendo originaria del continente africano è ora molto diffusa in tutto il pianeta.
Per chiarezza l’olio di palma ottenuto dalla polpa del frutto della palma è rosso e non deve essere confuso con l’olio ottenuto dal nocciolo e dal seme della palma che si chiama Olio di palmisto ed ha proprietà e colore differenti.

L’olio di palma ha una percentuale di grassi saturi non idrogenati pari al 50%, fattore che lo rende quindi semi-solido a temperatura ambiente.

Queste qualità lo rendono perfetto per le condizioni ambientali della produzione industriale. I lunghi tempi di stoccaggio, il calore anche prolungato (sole, luce battente) in cui sono conservati i prodotti e la loro conservazione in contenitori non perfettamente chiusi (dadi, biscotti…) per mesi e spesso a temperatura ambiente.
L’olio di palma negli ultimi anni sta sostituendo gli oli vegetali parzialmente idrogenati (per ridurre gli acidi grassi trans) ritenuti dannosi, per cui ne è aumentato enormemente l’impiego:
l’olio di oliva e di semi, “rammolliscono “il prodotto finito, perché ricchi di acidi grassi mono e polinsaturi, e lo deteriorano rapidamente.
il grasso dell’olio di palma è così diffuso perché è l’unico che possa resistere senza deteriorarsi e irrancidire.
Basso costo e versatilità lo rendono uno degli ingredienti maggiormente diffusi, soprattutto nell’industria alimentare.

Viene utilizzato come stabilizzatore, conservante contro l’ossidazione  e ammorbidente della consistenza.

L’olio di palma è utilizzato nei prodotti dolciari, nelle creme, nei biscotti, e in molti piatti pronti, ma anche nei prodotti cosmetici, per la cura del corpo e la pulizia della persona, quali saponi, creme e shampoo.
Anche nei prodotti biologici ed equo-solidali lo si può spesso trovare tra gli ingredienti.
Dire semplicemente olio di palma, in realtà, vuol dire esprimere un concetto piuttosto vago, visto che esistono tre tipi diversi di oli che si diversificano tra loro a seconda dell’origine e della lavorazione a cui vengono sottoposti, quali: olio di palma grezzo, olio di palmisto, olio di palma raffinato. L’olio di palma grezzo si ricava dai frutti della palma dei quali mantiene il caratteristico colore arancio rosso, dovuto all’alta concentrazione di carotenoidi, precursori della vitamina A. A temperatura ambiente ha una consistenza semi-solida simile alla sugna (strutto), dovuta all’elevata quantità di acidi grassi saturi (normalmente presenti nelle carni e nei grassi animali) che, però, sono compensati dalla presenza di una buona dose di antiossidanti e di vitamina E. Gli acidi grassi costituiscono circa il 50% dei grassi totali presenti, e il più rappresentativo è l’acido palmitico, un acido saturo a lunga catena; la restante percentuale è formata dagli acidi grassi monoinsaturi (40%) e polinsaturi (10%). L’olio di palmisto si ricava, invece, dai semi della pianta. Ha anch’esso una consistenza semi-solida a temperatura ambiente, perché ricco di acidi grassi saturi, ma ha un colore bianco che ricorda il burro perché privo di carotenoidi. L’olio di palma raffinato (o olio di palma bifrazionato) è il risultato di “bifrazionamento” e di raffinazione, meccanismi che consentono di convertirlo in forma liquida. Durante tali processi, però, esso perde tutti gli antiossidanti presenti nella forma grezza, e quindi tutta la parte benefica a favore dei soli acidi grassi saturi.  L’olio di palma raffinato è molto utilizzato nelle industrie alimentari per la frittura dei cibi e per la preparazione dei prodotti confezionati come biscotti, merendine, gelati, cioccolato e cioccolato spalmabile, zuppe già pronte ecc, a cui sa conferire cremosità e croccantezza, fungendo da addensante. L’olio di palma è meno delicato rispetto ad altri oli i quali, deteriorandosi in fretta, formerebbero sostanze tossiche che sarebbero potenzialmente nocive. L’olio di palma possiede, invece, una forte resistenza alla temperatura e al sole, candidandosi come olio migliore per la corretta conservazione dei cibi confezionati. Raggiungendo il punto di fumo molto lentamente, è l’ideale per la cottura dei cibi. È incolore, insapore, altamente versatile e lavorabile ma, soprattutto, è molto economico. È facilmente digeribile per la presenza, tra gli altri, di acidi grassi a media catena che attraversano più facilmente la parete intestinale. Il valore nutrizionale reale e gli effettivi impatti negativi che l’olio di palma può avere sulla salute sono ancora fonte di studi controversi. C’è chi afferma nel modo più assoluto che l’olio di palma fa male e lo demonizza senza possibilità di appello vista l’elevata presenza di acidi grassi saturi, che innalzano il colesterolo ematico e favoriscono così l’insorgenza di disturbi cardiovascolari. Al contrario, c’è poi chi pone l’accento, esaltandolo positivamente, sull’alto contenuto di vitamina E e carotenoidi. In realtà, la controversia deriva dalla confusione e dalla non chiarezza su quale dei tre tipi di olio si stia parlando. L’olio di palma grezzo, per tutte le sue caratteristiche, non rappresenta di per sé un grosso rischio per la salute di cuore e arterie o per il problema di sovrappeso e obesità. Purtroppo, però, quello che viene usato dalle industrie alimentari non è questo, ma il suo equivalente raffinato che ha ormai perso tutte le sue sostanze benefiche. I grassi non vanno del tutto eliminati dalla dieta: in una corretta alimentazione dovrebbero apportare circa il 30% delle kcal totali, di cui il 7-10% rappresentati proprio da quelli saturi. Il punto principale è che spesso ne assumiamo più del necessario e in maniera anche inconsapevole, proprio perché l’olio di palma è contenuto in moltissimi prodotti di uso quotidiano.

L'olio di palma viene applicato, tra l'altro, sulle ferite per facilitare la guarigione, grazie alle caratteristiche dell'olio; inoltre, si ritiene che l'olio di palma non raffinato, come anche l'olio di cocco, possa avere effetti antimicrobici, ma le ricerche non lo confermano in modo chiaro.

Il CSPI (Center for Science in the Public Interest), citando ricerche e meta-analisi, afferma che l'olio di palma aumenta i fattori di rischio cardiovascolare. Da molti anni è stato accertato che i principali acidi grassi che alzano il livello di colesterolo, aumentando i rischi di coronaropatia, sono gli acidi grassi saturi con 12 atomi di carbonio (acido laurico), 14 atomi di carbonio (acido miristico) e 16 atomi di carbonio (acido palmitico). Ricerche statunitensi ed europee confermano lo studio dell'OMS; in particolare, l'associazione no-profit statunitense American Heart Association elenca l'olio di palma fra i grassi saturi dei quali consiglia di limitare l'uso a coloro che devono ridurre il livello di colesterolo.

Tra gli argomenti di parte, e in risposta allo studio dell'OMS, il Comitato di promozione dell'olio di palma malese (Malaysian Palm Oil Promotion Council) ha sostenuto che non ci sono prove scientifiche sufficienti per elaborare linee guida globali sul consumo di olio di palma e ha citato uno studio cinese che avendo comparato lardo, olio di palma, olio di soia e olio di arachidi, i primi due con un alto contenuto di grassi saturi e generalmente considerati poco salutari, sostenendo che l'olio di palma aumenta il livello di colesterolo "buono" (HDL) riducendo il colesterolo "cattivo" (LDL) e che l'olio di palma è meglio dei grassi trans, grassi che (nei paesi dove non sono regolamentati) sarebbero comunemente scelti come suoi sostituti in diverse produzioni alimentari; queste affermazioni sono sostenute da uno studio precedente su vari oli e salute cardiovascolare.

Tuttavia, uno studio del dipartimento di Scienza e Medicina agricola, alimentare e nutrizionale dell'Università dell'Alberta ha mostrato che sebbene l'acido palmitico non abbia effetti ipercolesterolemici qualora l'assunzione di acido linoleico sia superiore al 4,5 % dell'energia, se la dieta contiene acidi grassi trans allora il colesterolo "cattivo" (LDL) aumenta e quello "buono" (HDL) diminuisce; inoltre, gli studi a sostegno del Comitato di promozione dell'olio di palma malese considerano il problema degli effetti dell'olio di palma unicamente sulla colesterolemia, in parte sui trigliceridi e non i suoi effetti complessivi sulla salute.

L'industria dell'olio di palma sottolinea che gli oli di palma contengano grandi quantità di acido oleico (è il secondo, col 38,7%, nell'olio di oliva l'acido oleico è il 55-83%), acido grasso protettivo, e, in contrapposizione a quanto noto in medicina e dietetica, sostiene che l'acido palmitico influisce sui livelli di colesterolo in modo molto simile all'acido oleico; afferma, inoltre, che gli acidi monoinsaturi come l'acido oleico sono tanto efficaci quanto gli acidi grassi polinsaturi (come l'acido alfa-linoleico) nel ridurre il livello di colesterolo "cattivo".


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giovedì 6 ottobre 2016

IL LIMONCELLO


Secondo la tradizione il limoncello nasce agli inizi del Novecento e la sua paternità viene contesa tra sorrentini, amalfitani e capresi: molto rinomato infatti è quello prodotto in Campania utilizzando il limone di Sorrento (il "femminello") o lo sfusato amalfitano IGP, nonchè quello di Procida.

In seguito alla popolarità raggiunta dal Limoncello in Italia, anche gli Stati Uniti hanno iniziato a produrre limoncello usando i limoni della California che equivalgono al 90% della produzione nazionale.

Il limoncello è un liquore dolce ottenuto dalla macerazione in alcol etilico delle scorze del limone ed eventualmente di altri agrumi, miscelata in seguito con uno sciroppo di acqua e zucchero.

Generalmente, si utilizza per l'infusione alcol etilico a gradazione di almeno 90%, in cui vengono macerate le scorze (solo la parte gialla) di dieci grossi limoni per ogni litro di alcol. Il periodo di macerazione varia a seconda delle ricette ma mediamente si aggira sui venti giorni, dopodiché viene aggiunto lo sciroppo, in cui le porzioni sono sommariamente di 600-700 grammi di zucchero per litro d'acqua. Il liquore viene quindi filtrato e imbottigliato.



Mediamente dopo almeno un mese di maturazione (ma per certe ricette la durata è molto minore) in bottiglia, diviene il classico liquore di colore giallo, particolarmente adatto da gustare come digestivo dopo i pasti.

La buccia di colore giallo citrino, ottenuta dai migliori limoni di forma ellittica, simmetrica e di dimensioni medio-grandi, è l'ingrediente principale del limoncello contenente oli essenziali che conferiscono al liquore un aroma molto deciso nonché un gusto molto forte.

Questo liquore ricco di aromi mediterranei, inoltre è conosciuto per le sue virtù digestive.





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GLI APERITIVI



Nel V secolo a.C. il medico greco Ippocrate prescriveva ai pazienti affetti da inappetenza un medicinale di sua invenzione: il vinum hippocraticum, vino bianco e dolce, in cui erano macerati fiori di dittamo, assenzio e ruta.

Fin dall'antichità Greci, Etruschi e Latini avevano l'abitudine di far precedere i loro banchetti da bevande a base di vino, miele, resine spezie e quant'altro fosse in grado di “aprire” all'assunzione del cibo. La parola aperitivo, deriva infatti da “aperio-aperire” parola latina che significa, appunto, aprire. Successivamente appare il termine “aperitivus”, parola che significa letteralmente “spalancare le porte al desiderio di dissetarsi”. 

Caterina de Medici, sposa di Francesco I, re di Francia, portò alla corte queste bevande, tanto che la parola si trasformò in “aperitif” col significato di “prima del pasto”.

L'aperitivo nel suo significato vero e proprio però nacque a Torino in una piccola bottega di liquori del signor Antonio Benedetto Carpano, il quale nel 1786 ha inventato il vermut, prodotto con vino bianco addizionato ad un infuso di oltre 30 tipi di erbe e spezie. Da allora la “speciale bevanda” è stata esportata in tutta Europa e successivamente prodotta da Cinzano e Martini & Rossi, divenendo con l'appellativo di “Martini” l'aperitivo per eccellenza, da bere liscio o come base di tanti cocktail come il Negroni. Si diffuse in diverse città d'Italia negli ultimi anni del 1800 specialmente nei caffè, particolarmente attivi a Torino, Genova, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, Milano.

Carlo Gancia nella metà dell'Ottocento propose una versione diversa del vernut: il vermut Gancia. Fu l'aperitivo ufficiale della casa reale, la quale concesse l'autorizzazione a usare la formula “Bianco Gancia, vermouth dell'Aristocrazia e della Regalità”. Fu usato come veicolo di propaganda anche un messaggero dell'indipendenza e dell'unità come Giuseppe Garibaldi da cui l'aperitivo “Garibaldi” di Gancia.

Gli aperitivi contengono delle sostanze che hanno delle proprietà che vanno a stimolare i succhi gastrici dello stomaco predisponendolo alla ricezione del cibo. Oltre alle sostanze contenute, anche il colore e l'odore, sono importanti. Spesso gli aperitivi si presentano con colori che vanno dal rosso, all'arancione, al bianco o trasparente.

Un aperitivo è un una bevanda alcolica o analcolica che si beve prima dei pasti per stimolare l'appetito (in inglese anche pre dinner). Può essere un cocktail o una bevanda non miscelata accompagnata o meno a stuzzichini. È diffuso in Italia così come in tutto il mondo.

Molti aperitivi, come ad esempio il Negroni, sono compresi nella lista della International Bartenders Association (Cocktail ufficiali IBA).

Per le normative italiane e comunitarie l'aperitivo (alcolico) non è una specifica bevanda alcolica definita dal punto di vista legale e merceologico come possono essere il vino, la birra, un distillato, il liquore, l'amaro, eccetera; è piuttosto una modalità di preparazione e consumo di bevande alcoliche o preparati a base di bevande alcoliche. Si noti inoltre che un aperitivo non deve necessariamente essere alcolico (basti pensare ai cosiddetti soft drinks che sono le famose bevande gassate diffuse in tutto il mondo).

L'aperitivo è un vero e proprio rito che si svolge dalle 18.00 alle 21.00 come pre-cena, come pausa di relax post lavoro. Viene accompagnato da stuzzichini come olive, patatine, salatini,taralli pugliesi,frutta e similari. Nuove varianti moderne si prolungano oltre l'orario di cena, sotto il nome di happy hour dove ad un costo di piccole tariffe aggiuntive è possibile degustare finger food di tutti i tipi, come sostituto alla cena.

In Italia l'aperitivo si è diffuso a macchia di leopardo. Cominciò ad essere servito in alcuni locali di Genova e di Firenze dove ad oggi tutti i locali offrono vari e ricchi buffet e dove venne inventato anche il famoso Negroni.

Al Nord è ben diffuso in tutte le città della Lombardia, nelle province ad essa confinanti e anche in molte località sciistiche delle Alpi è comunque ormai usanza largamente diffusa in tutte le grandi città italiane. A Milano, Genova, Torino, Verona e Bologna ci sono diversi locali, alcuni dei quali storici, che da anni offrono un aperitivo in grande stile.



L'aperitivo al Sud, soprattutto nelle città con il mare, si protrae fino a notte fonda sulle spiagge, dove è accompagnato da eventi musicali e promozionali. Questo avviene soprattutto nelle regioni della Puglia (come il Salento) e della Campania (soprattutto nella Costiera Amalfitana), dato l'alto tasso di turismo permette di divenire un'anticamera del divertimento.

In Friuli-Venezia Giulia e nella maggior parte del Veneto si continua invece a seguire il rito dell'aperitivo secondo le tradizioni locali, con ottimi vini e pochi stuzzichini. L'aperitivo per eccellenza era l'ex tocai (ora friulano o tai in veneto) negli ultimi anni superato dal prosecco.

A Milano e nel resto d' Italia è consuetudine effettuare un aperitivo in grande stile la domenica mattina (cosiddètto brunch), oppure tutti i giorni lavorativi prima di pranzo o cena. Non si riduce alla scelta della bevanda alcolica/analcolica, ma è accompagnata da un ricco buffet di stuzzichini, primi e secondi piatti, frutta e dolci.

In quasi tutte le località della Sardegna tradizionalmente il rito dell'aperitivo, sia prima di pranzo che prima di cena, consiste soltanto nel consumo di uno o più bicchieri di vino locale: cannonau o altri vini rossi nei paesi dell'interno, malvasia in Planargia, vernaccia nell'oristanese, vermentino in Campidano ed in Gallura. Negli ultimi dieci anni nelle principali città sarde ha preso piede, riprendendo una tendenza tipica dell'Italia, l'aperitivo che unisce vini o cocktails a stuzzichini e vario cibo.

I più diffusi aperitivi sono l'Americano, il Pirlo, lo Spritz, il Campari, il Rossini e il Sanpellegrino. Tra gli aperitivi composti da una sola bevanda alcolica il primato spetta al prosecco.

La moda dell'aperitivo è ormai ben radicata in tutta Italia già da diversi anni, e si sta diffondendo anche in altri paesi, quali la Svizzera, Francia, Austria, Slovenia, Serbia e Germania.

L'aperitivo ha anche degli effetti fisiologici come ad esempio la stimolazione della secrezione di succhi gastrici che può aumentare la sensazione di fame. Se in piccole quantità può portare leggeri benefici alla digestione, all'aumentare dell'assunzione la rende più difficoltosa e porta quasi a raddoppiare le calorie ingerite col successivo pasto.

Va registrato come il rito dell'aperitivo sia diventato ormai dalla seconda metà degli anni novanta una moda costosa, con l'apertura di alcune decine di locali in zone raffinate, con arredamenti lussuosi, superfici sterminate, selezione all'ingresso, buffet ricchissimi. I prezzi, saliti di concerto al diffondersi della moda, hanno reso l'aperitivo un'abitudine costosa in quanto tale, tuttavia molti considerano un ricco aperitivo un degno sostituto di una cena ad un prezzo molto più ragionevole. Anche questo fattore contribuisce a diffonderne la moda.

Con gli anni è pure cambiato il tipo di cocktail più richiesto e si è formata una "moda del bere". Se a metà anni ottanta si bevevano Long Island Iced Tea, Whisky con ghiaccio, Campari con il vino bianco (localmente un tempo chiamato anche mez-e-mez, cioè "mezzo e mezzo", oppure "un Campari in due", da non confondere con il Mezzoemezzo Nardini, un aperitivo a base di Rosso Nardini, Rabarbaro Nardini, Seltz e scorza di limone molto in voga al giorno d'oggi), Bloody Mary e pochi altri, intorno al 1988 si affermarono i cocktail sudamericani come i Daiquiri, le Tequila di vario genere, i Margarita.

Nei primi anni novanta diventarono di moda i cocktail a base di Vodka, seguiti pochi anni dopo dall'Americano e dalla riscoperta del Negroni sbagliato, inventato al Bar Basso di Milano negli anni cinquanta e in genere chiamato semplicemente "Sbagliato". Oggi i cocktail più diffusi sono proprio lo Sbagliato, i Vodka Martini, gli Spritz e i cocktail con succhi di frutta.

Si è diffuso negli ultimi cinque-sei anni circa l'offerta di buoni vini al calice al posto dei cocktail.

Con l’andare del tempo, il sorseggiare un aperitivo è diventato anche un modo per prendersi una pausa dalla propria attività lavorativa o concedersi alcuni momenti di socializzazione con amici o conoscenti subito dopo gli impegni lavorativi.

Per quanto riguarda gli aspetti salutistici va rilevato che il segreto sulla fabbricazione degli aperitivi non consente di conoscere la loro esatta composizione il che non può escludere un potenziale pericolo derivante dall’impiego di sostanze poco note nel loro effetto farmacologico, la cui assunzione protratta nel tempo, potrebbe causare effetti dannosi all’organismo. Va infine ricordato che, oltre a questa eventuale tossicità, può aggiungersi, soprattutto per quanto riguarda gli aperitivi analcolici, quella che potrebbe essere esplicata dalle sostanze antifermentative usate ai fini della loro conservazione.



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