venerdì 25 settembre 2015

CIBI BIO



Fino a prova contraria, una mela rimane sempre e comunque un alimento biologico, indipendentemente dalle tecniche colturali impiegate.
Anche in riferimento alla definizione di agricoltura biologica, data dalla IFOAM, non mancano le critiche; non è vero, per esempio, che nell'agricoltura biologica l'impiego di fertilizzanti, pesticidi e medicinali chimici viene ridotto drasticamente. In effetti, nonostante nel mondo biologico tali prodotti siano - almeno sulla carta - apparentemente meno "pericolosi", vengono comunque utilizzati in maniera non certo trascurabile.
D'altra parte, oggi come oggi, un sistema produttivo biologico in senso stretto non consentirebbe di sfamare la popolazione (in accordo con la FAO), perché già un 30% della produzione potenziale viene perduto per cause parassitarie (nonostante l'impiego di pesticidi e medicinali chimici di sintesi).
Ricordiamo, inoltre, come in tutta Europa non si parli più di agricoltura biologica, ma di agricoltura organica, e di come questa sia regolamentata da una specifica disciplinare di produzione.
Particolare attenzione durante l'acquisto di alimenti biologici nella grande distribuzione o dal piccolo fruttivendolo, in modo particolare quando vengono esposti sfusi (come succede per le verdure ed i frutti non confezionati). Per essere riconoscibile, infatti, un alimento biologico dev'essere imballato ermeticamente e presentare un'etichetta adeguata alle norme di legge; solo in questo modo rispetta il concetto di tracciabilità. Nonostante la presenza degli indirizzi del produttore e del distributore non dia certezza assoluta sull'origine biologica dell'alimento, testimonia perlomeno una loro presa di responsabilità; di conseguenza, fornisce una certa garanzia al consumatore.
In definitiva, non possiamo continuare a descrivere gli alimenti biologici come un qualche cosa di immacolato, esente da trattamenti e naturale al 100%; così facendo si alimentano illusioni ed aspettative, che nel momento stesso in cui vengono disattese finiscono col sottrarre credibilità all'intero settore. Il consumatore, dal canto suo, deve capire che dietro un prodotto biologico, esiste - o dovrebbe esistere - prima di tutto un metodo di coltivazione incentrato sul rispetto della natura, quindi con un impatto ambientale ridotto rispetto alle tecniche tradizionali. Indipendentemente dalle frodi alimentari, che interessano sia i prodotti naturali che quelli biologici (più soggetti rispetto ai primi per il maggior valore commerciale), il terrorismo nei confronti dei fitosanitari di sintesi e l'eccesso di fiducia nel biologico sono quindi privi di fondatezza. I primi, infatti, sono presenti - o dovrebbero essere presenti - in concentrazioni minime, spesso meno pericolose rispetto ai veleni naturali presenti in alcuni cibi (con la differenza che molti fitosanitari si sciacquano via, mentre i secondi no); più sensato risulta l'impiego di alimenti e prodotti biologici nell'alimentazione di soggetti malati o di neonati, perché più suscettibili all'eventuale tossicità di alcune sostanze (non solo fitosanitari, ma anche - ad esempio - i residui di metalli pesanti provenienti da una fabbrica prossima al luogo di coltivazione).



Ma consumare biologico vale davvero la pena? Il bio mantiene le promesse di maggiore qualità e sicurezza? Il risultato di un'indagine (su frutta e verdura, uova, olio, pasta, latte e yogurt) è confortante: nessuna traccia di sostanze chimiche proibite nei prodotti bio e residui ben al di sotto del limite di legge negli altri. In passato, aveva suscitato scalpore uno studio dell’Università di Standford, che aveva confrontato i risultati di 237 precedenti ricerche giungendo alla conclusione che i cibi bio non sono più salutari di quelli convenzionali, perché non contengono in media più vitamine o proteine. Possono risultare contaminati da batteri come l’E-coli esattamente come gli altri, ma il rischio di trovare residui di pesticidi è inferiore del 30 per cento, anche se non sempre i prodotti biologici ne sono risultati totalmente privi.

D’altro canto, proseguiva l’indagine americana, la carne di pollo e di maiale biologica è meno esposta a ceppi batterici resistenti agli antibiotici. Gli scienziati di Standford ammettono che la loro metaanalisi presenta limiti, soprattutto perché gli studi analizzati erano piuttosto eterogenei, ma la polemica bio-non bio rimane accesa.

Studi scientifici e clinici, in ogni caso, stanno individuando alcune tendenze: la frutta biologica contiene in genere più vitamina C. Il latte è più ricco di omega 3, che proteggono il sistema cardiovascolare, elemento sottolineato anche nella ricerca di Standford. L’Università di Pisa ha poi confermato la maggiore presenza di minerali e licopene (sostanza anticancro) nei pomodori coltivati senza fertilizzanti chimici.

Il biologico non è esente da ombre. La prospettiva di guadagnare di più (in un settore in crisi come quello dell’agricoltura) induce alla frode. In Germania milioni di uova sono state vendute con il marchio bio benché gli allevamenti non rispettassero i parametri per avere la certificazione: 150 allevamenti della Bassa Sassonia sono finiti sotto inchiesta per sovraffollamento negli stabulari, maltrattamento degli animali e gravi mancanze alimentari ai danni delle galline. In Italia, la truffa più grossa in questo settore è stata messa in luce un paio di anni fa dalla Guardia di finanza di Verona. L’operazione, denominata Gatto con gli stivali, aveva scoperto una quarantina di aziende che commercializzavano cereali e frutta bio che di bio non avevano nulla.

Un’altra frode non da poco è quella svelata dalla Forestale di Comunanza (Ascoli Piceno) che ha scovato migliaia di preparati a base di propoli e miele ufficialmente biologici, in realtà contenenti residui di fitofarmaci vietati e pericolosi per il sistema nervoso. Altro punto dolente sono i controlli delle aziende bio, che sono affidati a una serie di organismi certificatori ma spesso risultano inadeguati e più attenti alla verifica dei numerosi documenti che alle analisi effettuate sul campo.

Al di là dei comportamenti illegali, c’è una discussione che attraversa i movimenti bio di tutto il mondo: l’allargamento del mercato non rischia in realtà di tradire l’idea iniziale, quella di un’agricoltura attenta ai tempi e ai modi della natura? Sotto accusa è il cosiddetto «biologico di sostituzione», ovvero un semplice cambiamento dei fattori: via i fertilizzanti chimici, dentro quelli bio, via i pesticidi, dentro le sostanze consentite dalla legge. E per le galline ovaiole, una vita in un ambiente più ampio delle colleghe non bio, con mangimi adeguati ma lontano dall’immagine bucolica di pennuti che razzolano nel prato verde. La certificazione, in questo caso, attesta che si è rispettato una disciplina europea (tranne i casi di truffa), ma nulla dice su tutto il resto che può fare molta differenza.

L'agricoltura biologica è un tipo di agricoltura che considera l'intero ecosistema agricolo, sfrutta la naturale fertilità del suolo favorendola con interventi limitati, vuole promuovere la biodiversità dell'ambiente in cui opera e limita o esclude l'utilizzo di prodotti di sintesi e degli organismi geneticamente modificati (OGM).

La parola "biologica" presente in agricoltura biologica è in realtà un termine improprio: l'attività agricola, biologica o convenzionale, verte sempre su un processo di natura biologica attuato da un organismo vegetale, animale o microbico.

La differenza sostanziale tra agricoltura biologica e convenzionale consiste nel livello di energia ausiliaria introdotto nell'agrosistema: nell'agricoltura convenzionale si impiega un notevole quantitativo di energia ausiliaria proveniente da processi industriali (industria chimica, estrattiva, meccanica, ecc.); al contrario, l'agricoltura biologica, pur essendo in parte basata su energia ausiliare proveniente dall'industria estrattiva e meccanica, reimpiega la materia principalmente sotto forma organica.



Una dicitura sintetica più appropriata avrebbe forse potuto essere una di quelle adottate in altre lingue, agricoltura organica oppure agricoltura ecologica, in quanto mettono in evidenza i principali aspetti distintivi dell'agricoltura biologica, ovvero la conservazione della sostanza organica del terreno o l'intenzione originaria di trovare una forma di agricoltura a basso impatto ambientale.

I principali obiettivi dell'agricoltura biologica così come sono stati definiti dall'International Federation of Organic Agricolture (I.F.O.A.M.) sono:

Trasformare il più possibile le aziende in un sistema agricolo autosufficiente attingendo alle risorse locali;
Salvaguardare la fertilità naturale del terreno;
Evitare ogni forma di inquinamento determinato dalle tecniche agricole;
Produrre alimenti di elevata qualità nutritiva in quantità sufficiente;

La filosofia dietro a questo modo di coltivare le piante e allevare gli animali, che fa riferimento a tecniche e principi antecedenti all'introduzione dei pesticidi in agricotura avvenuta negli anni 70, non è solamente legata all'intenzione di offrire prodotti senza residui di fitofarmaci o concimi chimici di sintesi, ma anche (se non di più) alla fondata volontà di non determinare nell'ambiente esternalità negative, cioè impatti negativi sull'ambiente a livello di inquinamento di acque, terreni e aria.

Nella pratica biologica sono centrali soprattutto gli aspetti agronomici: la fertilità del terreno viene salvaguardata mediante l'utilizzo di fertilizzanti organici, la pratica delle rotazioni colturali e lavorazioni attente al mantenimento (o, possibilmente, al miglioramento) della struttura del suolo e della percentuale di sostanza organica; la lotta alle avversità delle piante è consentita solamente con preparati vegetali, minerali e animali che non siano di sintesi chimica (tranne alcuni prodotti considerati "tradizionali") e privilegiando la lotta biologica. Gli animali vengono allevati con tecniche che rispettano il loro benessere e nutriti con prodotti vegetali ottenuti secondo i principi dell'agricoltura biologica. Sono evitate tecniche di forzatura della crescita e sono proibiti alcuni metodi industriali di gestione dell'allevamento, mentre per la cure delle eventuali malattie si utilizzano rimedi omeopatici e fitoterapici limitando i medicinali allopatici ai casi previsti dai regolamenti.

Un'interpretazione del concetto di agricoltura biologica tesa alla sovranità alimentare e a una più radicale opposizione alla moderna agricoltura industriale è il principio di autorganizzazione.

L'agricoltura biologica in Europa è stata regolamentata per la prima volta a livello comunitario nel 1991 con il Reg. (CEE) n° 2092/91 relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e all'indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari.Solo nel 1999 con il Reg. (CE) n° 1804/99 sono state regolamentate anche le produzioni animali.

Nel giugno del 2007 è stato adottato un nuovo regolamento CE per l'agricoltura biologica, Reg. (CE) n° 834/2007, che abroga i precedenti ed è relativo alla produzione biologica e all'etichettatura dei prodotti biologici sia di origine vegetale che animale (compresa l'acquacoltura).

Gli alimenti biologici si sono dimostrati privi di residui da fitofarmaci nelle analisi condotte da Legambiente nell'ambito dello studio Pesticidi nel piatto 2007 ma non per questo maggiormente salubri. Uno studio dell'ICSP (International Centre for Pesticides and Health Risk Prevention) del 2007 mostra invece come taluni cibi biologici possano contenere residui di pesticidi. I cibi biologici sono comunque meno "inquinanti" dei cibi non biologici, ma non c'è una prova scientifica che tale purezza porti vantaggi significativi per la salute.

In generale, secondo le metà analisi svolte sulle centinaia di studi esistenti in tema, in particolare ad opera della Food Standards Agency e dall'Agenzia Francese per la Sicurezza Alimentare, non è possibile concludere che esistano differenze rimarcabili in quanto ad apporti nutrizionali tra prodotti convenzionali e biologici.

Nella prassi quotidiana, inoltre, differenze qualitative presenti fra prodotti biologici e tradizionali tendono ad appiattirsi ulteriormente a causa delle richieste dell'industria di trasformazione e distribuzione che richiede omogeneità e qualità uniformi per tutte le tipologie di prodotto.



Anche una ricerca finanziata dall'Università di Stanford rileva che tra prodotti biologici e convenzionali non c'è differenza, se si considerano gli effetti sulla salute e che, inoltre, i prodotti biologici non risultano più nutritivi. Lo studio riscontra una quantità di fitofarmaci superiore del 30% nei prodotti di agricoltura convenzionale, ma sostiene che questa percentuale non incide sulla salute dell'uomo. Un altro studio a risposta a quello dell'Università di Stanford che si basa su di un campione più elevato di dati, conferma, grossomodo, quanto dichiarato nel primo studio, ma svela che frutte e verdure biologiche hanno un numero maggiore di antiossidanti, tra il 20-40% in più rispetto a quelli coltivati con i metodi tradizionali.

Un'opinione diffusa vuole che i cibi biologici presentino valori più elevati di micotossine, sostanze naturali ad azione tossica prodotte da numerose specie di funghi. Diversi studi su micotossine, aflatossine e altri contaminanti degli alimenti non hanno però evidenziato differenze significative. In particolare, lo studio: “Qualità alimentare specifica e sicurezza dei cibi biologici”, presentato alla XXII Conferenza FAO per l'Europa (dal titolo "Food safety and quality as affected by organic farming") enuncia che “si può escludere che la produzione biologica conduca ad un rischio di contaminazione da micotossine più elevato", ma conclude rivelando la necessità di ulteriori studi sull'argomento.

L'agricoltura biologica, soprattutto se vista come modello di sviluppo globale, è stata al centro di dibattiti e critiche. In particolare sono due le principali obiezioni sollevate: la sua non sostenibilità su larga scala e la scarsa scientificità di talune sue pratiche legate all'assioma naturale=buono.

Se è vero che il divieto di usare la maggior parte di prodotti agrochimici di sintesi riduce quella parte dell'impatto ambientale agricolo legata all'immissione di molecole tossiche nell'ambiente, è altresì vero che la produzione biologica ha mediamente rese inferiori del 20-45% rispetto a quella convenzionale e pertanto, per produrre le medesime quantità, sarebbe necessario mettere a coltura il 25-64% di terre in più. Questo però porterebbe alla distruzione di habitat naturali importanti per la biodiversità oltre che ad aggravare il problema della fame.

Vi è inoltre la credenza che le pratiche di gestione biologiche consentano di ridurre la percolazione in falda di azoto o che aiutino lo sviluppo delle comunità microbiche del suolo; essa però non è del tutto accurata esistendo al riguardo dati controversi.

In tema di sostenibilità è stato osservato inoltre che l'agricoltura biologica è in grado di avvicinarsi, per molte colture, ai risultati di quella convenzionale solo se accoppiata ad una fertilizzazione del terreno. A causa della scarsità di animali allevati in modo biologico è attualmente consentito l'utilizzo anche di fertilizzanti certificati come biologici che di fatto però derivano da produzioni convenzionali. Questa pratica rende le rese dell'agricoltura biologica dipendenti dalla presenza di una forte agricoltura convenzionale, con risultati che non si potrebbero mantenere qualora l'agricoltura biologica, da fenomeno di nicchia, dovesse trasformarsi in un fenomeno globale.

In agricoltura biologica la scelta dei prodotti e delle molecole utilizzabili è decisa in base alla loro origine, che deve essere naturale. Tale distinzione tra prodotti naturali e di sintesi è però vuota da un punto di vista scientifico e porta all'erronea conclusione che i secondi siano più tossici dei primi. Questo di fatto consente di usare in agricoltura biologica prodotti naturali che presentano tossicità superiori rispetto a quelle di diversi prodotti di sintesi (come nel caso del rotenone) o il cui impatto ambientale è rilevante come nel caso del solfato di vinaccia, del nitrato del Cile o del verderame. Vi sono inoltre alcune patologie che non sono controllabili con sistemi biologici o per i quali vige la lotta obbligatoria che consente di mantenere la certificazione biologica pur utilizzando prodotti chimici di sintesi per il controllo dell'insetto o della patologia.

In taluni casi, l'impossibilità di usare diserbanti, rende necessario un maggior numero di lavorazioni meccaniche e per certe colture queste diventano onerose sia economicamente sia energeticamente, come nel caso del riso biologico.

Questi motivi rendono difficile la coltivazione biologica per molte specie agrarie, specialmente le commodity come il mais e la soia, la maggior parte delle coltivazioni è quindi confinata a specie di più facile gestione come alcune arboree (olivo) ed i pascoli e foraggi, che da soli costituiscono circa il 50% della superficie italiana a biologico.

Alcuni detrattori del "modello" biologico criticano fortemente anche l'uso della presunta superiorità del cibo biologico (nemmeno la pubblicità dovrebbe farvi riferimento) per far passare provvedimenti che ne impongano l'utilizzo nelle scuole sostenendo in modo artificiale il settore.

Molto criticati sono anche gli incentivi previsti per questo settore.

L'agricoltura biologica in questi anni ha sollevato molto interesse nei consumatori soprattutto a causa di alcuni scandali alimentari (BSE e Diossina) pur rimanendo un mercato di nicchia, dovuto in larga parte ai prezzi più alti rispetto ai corrispettivi prodotti convenzionali. In Italia, uno dei paesi leader nella produzione biologica europea, interessa circa il 6,9% della superficie agricola, di cui più del 50% rappresentato da pascoli e foraggere. Oltre alle considerazioni di tenore ambientale, altri motivi che hanno spinto l'adozione di questo tipo di pratica agricola in generale sono state quelle di tenore imprenditoriale (i consumatori sono disposti a pagare di più per i prodotti biologici) o legate alla disponibilità di finanziamenti dell'Unione europea per l'adozione di pratiche agricole eco-compatibili.

A differenza di quanto accade in tutta Europa, Stati Uniti o Giappone, dove tutte le principali catene distributive realizzano prodotti biologici a proprio marchio, e dove esistono catene di supermercati specializzati, negli ultimi anni la diffusione dei prodotti biologici nella grande distribuzione in Italia ha subito un rallentamento. L'esaurimento delle risorse dei Piani regionali di sviluppo - lo strumento con cui le Regioni "spendono" i finanziamenti europei per l'agricoltura - ha avuto la maggior responsabilità nella riduzione del numero delle aziende e delle superfici di vendita.

Il fatto non deve essere inteso però come indice di crisi di mercato: il sistema di controllo è infatti stato lasciato ad aziende maggiormente interessate ai contributi europei, che han continuato a vendere i propri prodotti sul mercato convenzionale. Di conseguenza il volume di prodotti biologici commercializzati si è ridotto solo nel canale supermercati, mentre ha continuato a crescere nel canale dei negozi specializzati ed in quello delle vendite dirette degli agricoltori.
Anche la quota di prodotti biologici utilizzati dalla ristorazione collettiva è in crescita: circa 1 milione di bambini mangiano cibo biologico a scuola come previsto dalla legge n.488/1999, art.59 e da altre leggi regionali) ed alcune regioni, tra le quali Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Marche e Basilicata, erogano anche contributi alle amministrazioni locali che optano per i prodotti biologici. La legge regionale n.29/2002 dell'Emilia-Romagna impone inoltre l'uso esclusivo di prodotti biologici in nidi d'infanzia, scuole d'infanzia e scuole elementari, mentre dev'essere di produzione biologica almeno il 35% degli ingredienti utilizzati nelle altre refezioni.

Gli organismi di controllo autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole (Mipaaf) sono enti di certificazione a cui la legge assegna il compito di verificare il rispetto dei regolamenti attuativi da parte delle aziende biologiche e concedere il proprio marchio da apporre alle etichette dei prodotti venduti dall'azienda associata. Tali organismi devono rispettare il principio di "terzietà" non intrattenendo altri rapporti commerciali o di consulenza con le aziende certificate; le Regioni e le Province a statuto speciale sono preposte al controllo di questo aspetto.

Gli organismi di controllo effettuano ispezioni presso le aziende associate con cadenza almeno annuale. La valutazione consiste in un sopralluogo di un auditor dell'organismo che controlla il rispetto delle normative e delle procedure, la tenuta dei registri e se necessario, in presenza di sospette violazioni, preleva campioni da sottoporre ad analisi. Tali enti di certificazione, per essere autorizzati dal Mipaaf, devono essere specificatamente accreditati da Accredia.






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Leggiamo Le ETICHETTE ALIMENTARI



Sapere esattamente dove e chi fa ciò che mangiamo. E' il senso della battaglia sul mantenimento nelle etichette alimentari dell'obbligo di indicare lo stabilimento di produzione. Obbligo prima sancito dalla legge italiana (lo prevedeva il D. Lgs 109/92). Ma che è stato abrogato dalle norme europee, ossia dall'entrata in vigore il 13 dicembre 2014 del Regolamento Ue 1169/2011 sulla nuova etichettatura dei cibi. La normativa europea, infatti, si limita a imporre l'obbligo di indicare solo il responsabile legale del marchio, che non serve a identificare esattamente la fabbrica nella quale è stato elaborato il prodotto. Per intenderci: una sede legale a uno stesso indirizzo e numero civico può rappresentare legalmente marchi e prodotti che vengono fatti in stabilimenti diversi e anche all'estero. L'indicazione della fabbrica, adesso, è facoltativa. Ma è facilmente intuibile che le grandi multinazionali europee della distribuzione, non più costrette a fornire questa indicazione e quindi non passibili di alcuna sanzione, tenderanno a eliminarla dai prodotti commercializzati con il loro marchio (detti anche 'private label'). Come del resto sta già accadendo.

Perché l'Europa ha deciso di eliminare questa importante indicazione? Secondo Brogna il vero scopo è quello di "nascondere  i copacker, ossia le aziende che realizzano e forniscono prodotti per le catene europee della grande distribuzione, in modo da poter creare nuove marche senza dire ai consumatori chi le produce. Insomma, l'ennesimo favore alle multinazionali del cibo".

La sede dello stabilimento in etichetta non è un'informazione di poco conto, ma di fondamentale importanza, per almeno cinque motivi:
1. Permette di difendere il vero made in Italy e garantisce un maggior controllo sulla tracciabilità e la sicurezza dei prodotti. Ad esempio, se lo stabilimento trasloca all'estero, il cibo perde completamente la sua identità di "fatto in Italia". Ma il consumatore non ne sa nulla, a meno che qualcuno si prenda la briga di informarlo.

2. I marchi italiani nelle mani di gruppi stranieri e multinazionali del cibo sono parecchi, nell’alimentare come in altri settori. "Il vero problema – spiega Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare, fondatore di Great Italian Food Trade - è costituito dai gruppi che con un marchio italiano in tasca, magari pure una sede legale in Italia riescono a mandare tutti a casa e delocalizzare la produzione all’estero, continuando a vendere i prodotti con marchi italiani storici nel nostro Paese e nel mondo".

3.L'indicazione dello stabilimento di produzione serve a facilitare e abbreviare i tempi di gestione delle crisi di sicurezza alimentare, poiché è più semplice risalire all’origine del problema quando si può facilmente identificare la fabbrica da cui il prodotto proviene.

4. Garantisce al consumatore una scelta informata di acquisto, che ragionevolmente può tendere a favorire gli alimenti realizzati in un determinato luogo da uno specifico produttore. Non solo per "campanilismo", ma anche come riconoscimento del valore delle tradizioni e della cultura materiale dei singoli territori.

5. L'indicazione dello stabilimento, infine, consente di capire se due prodotti anche se di marca diversa vengono fatti dallo stesso produttore. Quindi il consumatore conoscendo il produttore può risparmiare facendo la scelta più conveniente in rapporto qualità-prezzo, scoprendo ad esempio che un prodotto del discount o del supermercato può essere a volte uguale a quello di marca.

Le petizioni, le interrogazioni a Bruxelles, le interpellanze urgenti dei parlamentari del M5s (con i deputati Paolo Parentela e Giuseppe L'Abbate in prima linea), hanno ottenuto come primo risultato l'attenzione del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina che, sia pure tardivamente rispetto alla data di applicazione del regolamento Ue 1169/2011, ha saputo raccogliere questa istanza diffusa, dichiarando la propria volontà a notificare alla Commissione europea la norma nazionale. Ma l’onere della notifica ricade anche su un altro dicastero, quello dello Sviluppo Economico. La titolare, Federica Guidi, ha risposto convocando i rappresentati della filiera produttiva attorno a un tavolo. Al termine della riunione tenutasi l'11 febbraio, le parti hanno deciso di attivare immediatamente a Bruxelles tutte le "verifiche necessarie" per ripristinare l'obbligo. "I canali con Bruxelles sono stati aperti", ci assicurano dal Mise. Ma per gli attivisti non è abbastanza: "Da qualche parte ci deve essere qualcuno che frena - conclude Brogna - rimaniamo in attesa di vedere progressi e azioni concrete a livello legislativo in Italia e in Europa e anche nel futuro TTIP".



L'articolo 39 del Regolamento europeo sull'etichetta prevede che gli Stati membri possano introdurre obblighi aggiuntivi ma solo per categorie specifiche di alimenti purché siano giustificati da uno dei seguenti motivi: protezione della salute pubblica e dei consumatori, prevenzione delle frodi, protezione dei marchi, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni di origine controllata e per la repressione della concorrenza sleale. Proprio questo articolo ci permetterebbe di reintrodurre nella legislazione italiana l'indicazione della sede di produzione in una forma tale da non poter essere censurata da Bruxelles.

In realtà, alcune informazioni sono obbligatorie e regolamentate per legge, mentre altre sono facoltative o complementari.

Per legge, l'etichetta alimentare è definita come "l'insieme delle menzioni, delle indicazioni e dei marchi di fabbrica o di commercio, delle immagini o dei simboli che si riferiscono ad un prodotto alimentare e che figura direttamente sull'imballaggio o sulla confezione o su una etichetta appostavi o sui documenti di trasporto".
Il requisito principale dell'etichetta alimentare è quello di INFORMARE il consumatore sulle reali caratteristiche del prodotto, al fine di orientarne al meglio la scelta commerciale. Ciò prevede, quantomeno, una totale chiarezza e il divieto verso qualunque tipo di illusione qualitativa e nutrizionale.
I requisiti da garantire tramite l'etichetta alimentare sono:
Chiarezza
Leggibilità (tipografia e dimensioni) e Facilità di lettura (grafica)
Indelebilità
Secondo questi criteri, il produttore è tenuto a citare con attenzione soprattutto le seguenti specifiche:
Marca
Denominazione
Peso sgocciolato (privo delle porzioni non eduli come, ad esempio, il liquido di governo)
Quantità netta (priva di tara)

Il 25 ottobre 2011, il Parlamento Europeo e il Consiglio dei Ministri hanno adottato il Reg. UE 1169/2011, con il quale vengono abrogate le direttive 2000/13/CE e 90/496/CE, proponendo alcune variazioni al fine di appianare le divergenze presenti tra i vari paesi membri.
Tali discrepanze (logica conseguenza di specifici interessi industriali, agricoli ecc.) interferivano col libero scambio delle merci, poiché regolamentato da: tracciabilità in condizioni di emergenza sanitaria e tutela della salute dei consumatori.
Tale Regolamento, pubblicato in GUE il 22.11.2011, diverrà operativo dal 13 dicembre 2014 (eccetto l'obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale che avverrà dal dicembre 2016) e interessa ESCLUSIVAMENTE i prodotti pre-confezionati o pre-imballati; nel caso in cui il prodotto venga proposto senza confezione o venga pre-imballato sul punto vendita, le indicazioni da apporre obbligatoriamente sono a discrezione dello Stato membro (art. 44).
Il campo di applicazione delle etichette è rappresentato dai prodotti alimentari stessi, che possono essere venduti nelle seguenti forme:
Sfusi: senza alcuna confezione (frutta, ortaggi, gastronomia ecc.); le indicazioni vanno affisse sul recipiente di vendita: denominazione, elenco ingredienti, eventuali allergeni e, se previste, data di scadenza e modalità di conservazione
Preincartati: confezionati sul luogo di vendita al momento o poco prima dell'acquisto (pane, carne fresca, formaggi, salumi ecc.). Devono presentare obbligatoriamente qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico che provochi allergie o intolleranze ancora presente nel prodotto.
Preconfezionati: venduti in confezioni già applicate dal produttore e in cui l'alimento rimane fino al momento del consumo senza subire alterazioni. Sono quelli più diffusi e anche i più soggetti a restrizioni normative.



Nel complesso, l'etichetta alimentare completa di un prodotto preconfezionato deve citare obbligatoriamente (art. 3 D.lgs 109/92):
Denominazione di vendita
Elenco degli ingredienti
Termine minimo di conservazione o data di scadenza
Nome, ragione sociale o marchio depositato, e la sede del fabbricante o del confezionatore o di un venditore residente nella UE
Sede dello stabilimento
Quantità netta o quantità nominale di produzione o confezionamento
Titolo alcolometrico volumico effettivo per le bevande aventi un contenuto alcolico >1,2%
Lotto di appartenenza
Modalità di conservazione ed eventualmente utilizzo
Quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti oppure se ne è presente uno caratterizzante.
Inoltre, secondo l'art. 9 del Reg. UE 1169/2011, devono essere riportati obbligatoriamente anche:
Qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico ancora presente nel prodotto (come nei preincartati) che provochi allergie o intolleranze
Paese di origine e luogo di provenienza
La dichiarazione nutrizionale, che deve riportare le seguenti diciture:
il valore energetico;
la quantità di determinati nutrienti che rientrano nella composizione, i lipidi, i grassi saturi, nonché una dicitura specifica per zucchero e sale.
Il regolamento stabilisce anche che non è obbligatorio l'inserimento del'etichetta nutrizionale nei prodotti confezionati in maniera artigianale o forniti dal fabbricante in piccole quantità, oppure preparati nei locali che forniscono direttamente il prodotto al dettaglio.

Tante più indicazioni sono presenti sull'etichetta e tanto migliore sarà il giudizio alimentare su quel determinato prodotto.
Generalmente, un prodotto di qualità viene valorizzato elencando le sue proprietà nutrizionali e pubblicizzando la natura e l'origine dei suoi ingredienti.
Per esempio la dicitura "olio extra vergine di oliva di prima spremitura " anziché "olio di oliva" valorizza il prodotto, perché specifica una caratteristica ben precisa di un suo ingrediente.
Il produttore è obbligato, per legge, a rispettare la veridicità delle informazioni riportate in etichetta, per cui il termine "extravergine di prima spremitura" deve essere per forza di cose veritiero.
La descrizione del metodo di produzione, certificazioni di qualità, ricette e numero verde di assistenza clienti contribuiscono ad elevare ulteriormente la qualità del prodotto.

L'ordine con cui gli ingredienti appaiono in etichetta non è casuale, ma è regolato per legge. In particolare i vari componenti devono comparire in ordine decrescente di quantità. Significa che il primo ingrediente dell'elenco è più abbondante del secondo, che a sua volta è più abbondante del terzo e così via.
Pertanto, controllando l'ordine degli ingredienti di due prodotti simili possiamo farci un'idea su quale dei due sia qualitativamente migliore. Se per esempio nell'etichetta alimentare di due biscotti l'ordine di olio extra vergine di oliva e margarina è invertito è meglio scegliere quel prodotto in cui l'olio extra vergine di oliva compare per primo.
ATTENZIONE ALLE TRUFFE: Poiché gli ingredienti appaiono in ordine di quantità, alcune etichette alimentari possono trarre in inganno il consumatore. Se per esempio vengono utilizzati due tipi diversi di grassi (margarina e strutto), questi compaiono in etichetta come due ingredienti distinti. In realtà appartengono entrambi alla categoria dei grassi e nel loro insieme possono rappresentare un quantitativo superiore (ad es. 25 + 25 = 50%) a quello impiegato per la produzione di un secondo prodotto in cui il termine strutto compare prima tra gli ingredienti (40%) ma che non viene associato ad altri grassi. In questo caso il contenuto lipidico del secondo prodotto è inferiore.

Accade spesso che il consumatore sia tratto in inganno dalle dimensioni delle confezioni.
Prendiamo per esempio due tavolette di cioccolato delle stesse dimensioni. La prima costa 1 euro ed è spessa 1 cm (100 grammi), mentre la seconda costa 0,90 € ed è spessa 0,6 cm (60 grammi). Se il consumatore sceglie il cioccolato in base alla dimensione della confezione sarà portato ad acquistare il secondo prodotto, ignaro della differenza di peso dei due alimenti.

Come riportato (anche se con il vecchio trucco dei caratteri minuscoli) sull'etichetta alimentare, l'immagine illustrativa sulla confezione ha il solo scopo di richiamare l'attenzione del consumatore e non è necessariamente legata all'aspetto reale del prodotto.
Allo stesso tempo è bene verificare l'integrità della confezione accertandosi che non presenti segni di danno o rigonfiamenti.
ATTENZIONE ALLE TRUFFE: non fidatevi della scritta promozionale "senza zucchero" ma leggete attentamente le etichette. Se tra gli ingredienti compare una delle seguenti diciture "sciroppo di glucosio" "sciroppo di fruttosio" "maltosio" "amido di mais" "sciroppo di cereali" l'alimento contiene indirettamente dello zucchero. Queste sostanze infatti hanno un alto indice glicemico che le rende del tutto simili al saccarosio.

A parità di qualità e prezzo è buona regola preferire alimenti confezionati con materiale riciclato/riciclabile.







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IL CIBO DELLE MENSE



Per esigenze lavorative o di studio si pranza fuori casa ed è spesso difficile conciliare questo aspetto con la propria dieta.
D'altra parte per i ristoratori non è certo facile associare l'appetibilità e la qualità dei cibi con un prezzo ragionevole. Per questo motivo nelle mense e nei ristoranti più economici si fa un largo uso di alimenti precotti, di aromi artificiali e di condimenti come la panna e il burro.
In questi casi diventa davvero facile cadere in tentazione e commettere errori alimentari anche piuttosto grossolani.
Tutti noi abbiamo però a disposizione degli stratagemmi per difenderci da cibi di scarsa qualità o troppo grassi che rischiano di far lievitare il nostro giro vita.
Una prima colazione nutriente e bilanciata permette di iniziare la giornata con vitalità senza farci arrivare stanchi ed affamati alla pausa pranzo.
Se la verdura è a buffet, è bene mangiarla prima degli altri alimenti. In questo modo si prepara l'ambiente digestivo e, grazie alla presenza di fibra con buon potere saziante, si evitano inutili abbuffate.

Meglio stare lontani dai fast-food anche se bisogna riconoscere che ultimamente sono state introdotte delle proposte "quasi salutari" per soddisfare le esigenze di un pubblico sempre più attento a linea e salute. Se proprio non riuscite a resistere alla tentazione cercate almeno di evitare bevande zuccherate tipo coca cola o alimenti fritti.



La pizza in realtà nasconde molte calorie. Per la precisione questo alimento, tipicamente italiano, non rientra tra gli alimenti ipercalorici ma è facile consumarne grossi quantitativi (una pizza di medie dimensioni pesa all'incirca 250-300 grammi).

Lo zucchero nel caffè, il vino o le bevande zuccherate al posto dell'acqua, l'aggiunta di olio o formaggio grattato e via dicendo. Dieci grammi di zucchero + 15 grammi di olio di oliva + 20 grammi di parmigiano +1 coca cola in lattina apportano, da soli, all'incirca 400 Kcal.

Il problema della pasta è che è un alimento poco saziante e molto calorico (scondita siamo già a 360 kcal per 100 grammi). Tuttavia se la si abbina a della della fibra (verdura) o a grassi e proteine (carne e olio di oliva), l'indice di sazietà aumenta notevolmente. La pasta al tonno, olio di oliva e pomodoro è perfetta, un ottimo esempio di un piatto unico bilanciato ed equilibrato. Anche la pasta con i legumi e pomodoro è bilanciata, così come quella con macinato e zucchine, tanto per fare degli esempi. La pasta alla carbonara lo è meno (mancano le verdure), così come quella con l'olio (mancano le verdure e le proteine della carne).
Quindi, se la mensa propone della pasta con un condimento vario e non troppo ricco di grassi la si può consumare tranquillamente come monopiatto. In caso contrario meglio della carne, ovviamente non troppo unta, con un po' di pane e verdure a piacere.

Le mense aziendali devono rendere nota la quantità dei cibi che propongono.

Un panino con qualche foglia di lattuga e dell'affettato magro è la scelta migliore. Altre scelte salutari sono, per esempio, una macedonia di frutta e qualche noce, un po' di bresaola con abbondante rucola e qualche scaglia di grana.
A parità di prezzo (difficile pensare che un menù fisso a 10 euro sia preparato con alimenti di qualità) cercate di valutare il modo di porsi del personale. Una camicia sporca è segno di scarsa igiene, un menù speciale per i celiaci o proposte dietetiche particolari sottolineano invece l'attenzione del locale.

Chi mangia in mensa è predisposto ad una carenza di acido folico e di altre vitamine termolabili. L'abitudine di tenere in caldo le vivande a causa della prolungata esposizione al calore tende infatti a degradare tali vitamine. Per questo motivo è bene cercare di compensare tale carenza consumando un pasto serale ricco di verdure possibilmente crude.

È un universo di luci e ombre quello della mensa scolastiche in Italia. Un universo in cui è difficile generalizzare, perché sono troppe le differenze tra scuola e scuola, anche nella stessa città. Stando a un recente sondaggio, però, è mediamente buono il giudizio che i genitori danno alla mensa scolastica che giornalmente serve i loro figli. Tutto a posto, quindi? Forse. Ma quanto sono davvero consapevoli le mamme e i papà di quanto e di come mangiano i bambini?
La situazione è variegata sul territorio nazionale, dal momento che ogni Comune decide per conto suo come gestire le mense. In quasi tutti, e in quelli più grandi in particolare, ci sono delle commissioni ad hoc composte da nutrizionisti, dietisti, pediatri, igienisti e medici sportivi, il cui compito è proprio organizzare i menu. Teoricamente, quindi, tutto dovrebbe andare bene, ma nella realtà non è sempre così e ci sono ancora grossi problemi da risolvere.
Il primo è di impostazione e ce lo portiamo dietro dagli anni Venti, quando vennero creati i primi refettori: è considerare che le mense scolastiche debbano coprire il 50% del fabbisogno nutrizionale quotidiano dei bambini. Questa è un’impostazione che andava bene in un’epoca in cui la povertà era diffusa e si voleva andare incontro alle esigenze di quei bambini che a casa avrebbero mangiato poco o nulla. Ma oggi, dopo i cambiamenti sociali del secondo dopoguerra e il boom economico degli anni Sessanta, non ha più senso. È vero che molte commissioni hanno ridotto le quantità e che alcune mense scolastiche sono virtuose, ma in tante altre i piatti per i bambini continuano a essere eccessivi.



Il secondo grosso problema è quello dell’equilibrio nutrizionale, che non sempre viene rispettato. In quasi tutti i menu sono previsti piatti con legumi e cereali, come pasta e fagioli o riso con le lenticchie. Sono piatti unici, ma nella consapevolezza che non tutti i bambini li mangiano, si preparano anche dei secondi. Così c’è il bambino che mangia solo il secondo e un altro, invece, che oltre alla pasta e fagioli si prende pure la carne. In questo modo si dimentica che la mensa deve essere un momento educativo, che deve sia stimolare i bambini ad apprezzare nuovi piatti, ma anche insegnare che alcuni piatti sono ‘piatti unici’ e non hanno bisogno di altro. Invece, così facendo si manca anche di far capire ai genitori che quando preparano un pasto con legumi e cereali serve solo un po’ di verdura e della frutta per avere un pasto completo ed equilibrato. Ma c’è un ultimo problema ed è quello della porzionatura.
È chiaro che ogni mensa debba preparare i pasti considerando il numero complessivo e l’età media dei bambini. Va bene in linea teorica, ma non nella pratica, perché le porzioni non possono e non devono essere uguali per tutti i bambini, ma andrebbero proporzionate almeno rispetto all’età. Così invece passa il messaggio che tutti possano mangiare le stesse quantità e i bambini acquisiscono un modello che poi vogliono applicare anche a casa, chiedendo lo stesso piatto del papà o del fratello più grande. Tutto questo si eviterebbe se la mensa fosse vista, in primis dagli insegnanti, come un fatto educativo al pari delle ore di lezione. Gli insegnanti dovrebbero non tanto controllare ogni alunno, che è una cosa impossibile, ma quantomeno vigilare che non siano date doppie porzioni, che tra l’altro, per disposizione, non sono neanche consentite.
Molto spesso i bambini mangiano a scuola piatti che invece a casa rifiutano. Lo fanno in genere per imitazione, vedendo i loro compagni. Il risultato è che così molti si approcciano a nuovi ingredienti. È vero, però, che a scuola si fa troppo poco verso i bambini fortemente neofobici.

L’obesità infantile è uno dei problemi più gravi riscontratisi durante lo sviluppo. E' brutto sapere che riguarda ben un bambino su tre in Italia.

A questo proposito Ferruccio Fazio, il ministro della Salute ha fornito alle mense scolastiche un vademecum per far sì che i bambini, almeno a scuola, mangino cibi più sani e genuini.
Gli utenti delle mense scolastiche in Italia sono circa 1,5 milioni, a dichiararlo è proprio il Ministero della Salute. L’obesità colpisce il 12,3% dei bambini italiani, mentre il 23,6% è in sovrappeso e ogni anno i casi aumentano.



Ecco allora come cambieranno i menù nelle scuole dei nostri figli:

La pizza, o la lasagna, al massimo una volta a settimana come alternativa alla pietanza tradizionale;
pasta e pane tutti i giorni,
un secondo a scelta tra carne, pesce, uova o formaggi con la possibilità di alternare anche i legumi;
una porzione giornaliera di frutta e verdura, e salumi solo due volte al mese.
Carlo Cannella, nutrizionista dell’Università La Sapienza di Roma e presidente dell’Inran, l’ente pubblico italiano per la ricerca in materia di alimenti e nutrizione, commenta così: «la tabella parla del 35% di apporto calorico giornaliero da assicurare con il pranzo. Considerando che si tende ad attribuire il 20% di ratio energetica alla colazione, percentuale fra l’altro molto difficile da raggiungere con la colazione italiana, il 100% giornaliero è ancora molto lontano». «L’apporto del pranzo dovrebbe essere in realtà - spiega l’esperto - intorno al 40-45 per cento del totale» altrimenti «c’è il rischio che i bambini arrivino a casa affamati e vogliano il panino».
Per quanto riguarda l’equilibrio degli apporti tra i vari componenti (proteine, zuccheri, grassi, fibre) e della scelta dei cibi, Cannella si dice d’accordo con un distinguo: «Mi sembra che ci sia un’eccessiva demonizzazione dei salumi. Il prosciutto cotto e la mortadella sono tra i cibi che i bambini italiani gradiscono di più, e ai quali sono più affezionati».







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martedì 22 settembre 2015

Oggi Cosa Si Mangia? VELENO



In occasione della Giornata Mondiale della Salute, celebrata martedì 7 aprile, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha voluto mettere in luce i rischi legati alla sicurezza del cibo, richiedendo interventi trans-nazionali che affrontino il problema.

"La produzione del cibo è stata industrializzata, e commercio e distribuzione sono state globalizzate", ha spiegato Margaret Chan, direttore generale dell'OMS. "Questi cambiamenti introducono numerose nuove opportunità per il cibo di essere contaminato da batteri, virus, parassiti e composti chimici. Un problema locale di sicurezza del cibo può velocemente diventare un'emergenza internazionale. Indagare su un'epidemia di una malattia proveniente dal cibo è decisamente più complicato quando in una singola ci sono ingredienti da diversi paesi".

Come riportato dai medici dell'organizzazione, le possibili contaminazioni del cibo possono portare alla diffusione di oltre 200 patologie, che vanno dalla diarrea al cancro. Alcuni esempi di alimenti pericolosi possono essere i cibi di origine animale non sufficientemente cotti, frutta e verdura contaminata da feci, o crostacei che contengono biotossine marine.

Per provare a fornire un quadro della situazione, l'OMS ha rilasciato i primi dati di un'analisi globale delle malattie derivanti dalla contaminazione del cibo, con i risultati definitivi sono attesi per ottobre 2015. Un elemento preoccupante è costituito dalle infezioni enteriche causate da virus, batteri e protozoi che entrano nel corpo tramite cibo contaminato. Secondo i dati OMS, dal 2010 ci sono stati 582 milioni di casi di questo tipo, con 351.000 morti.



I principali responsabili sono agenti come la salmonella enterica (52.000 morti associate), l'Escherichia coli (37.000 decessi) ed il norovirus (35.000 morti). La zona più colpita dai decessi causati dal cibo contaminato è l'Africa, seguita dal sud-est asiatico. Oltre il 40% dei soggetti che hanno sviluppato una malattia enterica in questo modo sono bambini al di soto dei 5 anni.

Il problema, ad ogni modo, non riguarda solamente la salute, ma anche l'economia: è stato stimato che l'epidemia di Escherichia coli in Germania nel 2011 abbia causato perdite di 1,3 miliardi di dollari per agricoltori ed aziende, ed ulteriori 236 milioni di dollari in aiuti per 22 stati membri dell'Unione Europea.

"Spesso c'è bisogno di una crisi perché la consapevolezza collettiva della sicurezza del cibo venga scossa e si intraprendano azioni decise", commenta Kazuaki Miyagishima, direttore del Dipartimento per la sicurezza del cibo e la zoonosi dell'OMS. "L'impatto sulla salute pubblica e sull'economia può essere grande. È quindi necessaria una risposta sostenibile che garantisca che standard e controlli siano al loro posto, per proteggere dai rischi legati alla sicurezza del cibo".

Nei primi quattro mesi del 2015 nei Paesi dell'Unione Europea sono scattati "33 alert". Si rischia un anno record, con il pericoli di danni anche gravi per la salute dei cittadini
Il rischio più grande è di sottostimare i rischi. Un gioco di parole per dire che, nel mondo globalizzato, nessuno può sentirsi al sicuro limitandosi a comportamenti virtuosi. Perché le minacce, dal terrorismo alla scoperta di cibo contaminato, fino alle catastrofi naturali possono mandare gambe all'aria anche aziende che si sentivano al sicuro.

Del tema si è discusso in un convegno organizzato a Milano da Anra (Associazione Nazionale dei Risk Manager) e Agcs (Allianz Global Corporate & Specialty), dal titolo emblematico: "Hot topics: Crisis Management e Weather Risk... Nuovi rischi, nuovi scenari. Quali risposte?".



L'Europa si è dotata di un sistema di alert efficiente, che tuttavia non è fin qui risultato sufficiente. Dal 2009 al 2014 gli allarmi sono stati in media 87 all'anno e questo 2015 potrebbe toccare cifre record, se si considerano che solo tra gennaio e aprile si è attivati a quota 33. Lo spettro dei rischi è molto ampio: si va dalla scoperta di contaminati da ritirare dal commercio (basti pensare al caso della "mozzarella blu") ad automobili e prodotti di consumo da richiamare in fabbrica perché difettosi o pericolosi, dagli eventi climatici estremi agli atti di terrorismo (questi ultimi esplosi negli ultimi anni, tanto da interessare non solo Paesi tradizionalmente caldi come Afghanistan e Iraq, ma anche i Paesi occidentali). Al di là delle preoccupazioni per la salute dei cittadini, queste variabili chiamano in causa il comportamento delle aziende, che non sempre si sono dotate di sistemi di risk management, in grado di scattare prontamente per minimizzare l'impatto sui conti delle società.

Christof Bentele, responsabile global crisis management di Agcs, ha citato l'esempio dell'automotive, un'industria nella quale sono frequenti i richiami di modelli per il malfunzionamento emerso solo dopo che gli stessi erano già in commercio. Inoltre, molti settori dell'economia, come energia, dettaglio, alimentazione, turismo, costruzioni e trasporti sono sensibili ai mutamenti del clima quanto o persino più di quanto non lo siano ai tassi di interesse o alle fluttuazioni dei cambi. Si stima che il 70% delle aziende siano esposte a "seri rischi meteorologici", un dato sinora sottovalutato. Per esempio il costo di ritardi dovuti al meteo per le imprese di autotrasporti negli Usa ammonta a 3,5 miliardi di dollari all'anno. Mancano dati europei, ma sicuramente da noi  - dove la cultura del risk management è poco diffusa  -  la situazione è peggiore.

Christof Bentele, responsabile global crisis management di AGCS, ha elencato i costi e descritto gli scenari delle crisi in cui rischiano di precipitare le aziende costrette a richiamare o ritirare un prodotto alimentare contaminato per cause accidentali o dolose, portando quindi al dibattito le soluzioni assicurative e di gestione della crisi che AGCS offre alle imprese. Non soltanto per i cibi e gli alimenti, ma per tutti i prodotti oggetto di “recall” (richiamo) da parte dei produttori sia perché risultano pericolosi, o soltanto difettosi.

Molti settori dell’economia, come energia, dettaglio, alimentazione, turismo, costruzioni, trasporti, sono sensibili ai mutamenti del clima quanto o persino più di quanto non lo siano ai tassi di interesse o alle fluttuazioni dei cambi. Si stima che il 70% delle aziende siano esposte a “seri rischi meteorologici”, un dato sinora sottovalutato. Per esempio il costo di ritardi dovuti al meteo per le imprese di autotrasporti negli USA ammonta a 3,5 miliardi di dollari all’anno.

Gestione del rischio meteorologico, ha spiegato Dan Tomlinson, managing director di Allianz Risk Transfer, significa gestione dei rischi finanziari che sono direttamente o indirettamente legati al verificarsi di un evento meteo osservabile o alla variabilità di un indice meteo misurabile: “Sostanzialmente non è necessario alcun danno fisico perché avvenga un pagamento, a differenza di quanto avviene per i prodotti assicurativi tradizionali.

Questo tipo di prodotti si basa sull’uso di dati meteo - temperatura, precipitazioni, nevicate e vento - come riferimento per gli indici di rischio”.

Le relazioni e il dibattito sono stati introdotti dagli interventi di Andreas Berger, AGCS board of management - chief regions & markets officer, di Patrick Thiels, regional Ceo Mediterranean France e Benelux AGCS, di Giorgio Bidoli, country manager AGCS Italy, e di Angela Rebecchi, head of market management AGCS Italy.






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Noi Mangiamo il POLLO ma Lui Cosa Mangia?



Tutti i polli che compriamo e mangiamo, in tutto il mondo, sono oramai solo di un paio di razze ibride (denominate COBB 500, i cui brevetti sono in mano alla The Cobb Breeding Company LTD), nate nei segreti laboratori di genetica applicata, selezionate esclusivamente per l'ingrassaggio. Il risultato di queste selezioni è una vera macchina biologica ad elevatissimo "indice di conversione": un broiler mangia un chilo e mezzo di mangime e ne "produce" uno di carne.
Lo fanno vivere solo 35 giorni (non ha neanche il tempo per diventare pazzo).
Questi polli denominati "galletti" quando arrivano a "maturazione" pesano vivi in media sui 2,3 chili e preparati a busto circa 1,2.
Per avere queste rese così elevate e cicli biologici così accelerati servono allevamenti e mangimi adatti.

Si chiama allevamento industriale  integrato, le cui principali fasi sono: produzione della gallina ovaiola, incubatoi delle uova, produzione dei pulcini,, macelli, industria di lavorazione, logistica e commercializzazione.
 
L’allevamento viene svolto in grandi capannoni dove possono stare decine di migliaia di volatili: con una densità di 10-15 per metro quadro, cioè sino a 30 chili di “carne” a mq. (I regolamenti dell’Unione Europea per gli allevamenti biologici stabiliscono invece  in tre polli per metro quadrato la densità massima ammissibile).
Beccano tutto ciò che ha colore paglierino, giorno e notte, grazie all’illuminazione artificiale.
Le temperature sono sempre elevate (anche a causa della luce e delle deiezioni, che vengono raccolte con una ruspa per la produzione della pollina, sottoprodotto usato come concime agricolo o combustibile (e fino a 10 anni fa come mangime per bovini da ingrasso).
Le condizioni igieniche sono terribili. Gli animali vivono dal primo all’ultimo giorno della loro breve vita calpestando e dormendo sulle loro deiezioni. Le infezioni batteriologiche sono contrastate dal primo all’ultimo giorno di vita con gli antibiotici contenuti nei mangimi.
Ma per i virus – come si sa – non ci sono farmaci. Da qui l’uso di vaccini che, come è noto, creano anticorpi che contrastano le  manifestazioni patologiche del virus, ma impediscono l’eradicazione dello stesso, consentendo che animali solo apparentemente sani siano commercializzati, con il rischio che il virus si trasferisca dall’animale all’uomo.
A questo si aggiunge il rumore spaventoso provocato dal pigolare di 50.000 – 100.000 animali spaventati, tenuti in quelle condizioni. L’organismo del pollo, che è pur sempre un animale diurno, viene messo a dura prova: l’apparato digerente stressato, la sua capacità di resistenza agli agenti patogeni fortemente indebolita.
Nel territorio dove sono inseriti, senza un minimo di criterio di biosicurezza, questi allevamenti sono delle vere e proprie bombe batteriologiche, pericolose e costose per tutta la collettività. Pericolose, in quanto incubatoi di possibili virus trasmissibili agli uomini come salmonelle e influenze; costose, come per il caso dell’ultima peste aviaria,  costata alla sola regione veneta 110 miliardi di lire, e ben 500 allo stato.



In regime naturale, i  polli dovrebbero mangiare solo mais, soia e fibre, trasformando proteine vegetali in proteine nobili. Il tipo broiler, che rappresenta il 99% dei 520 milioni di polli e dei 22 milioni di tacchini che mangiamo ogni anno, mangia invece esclusivamente mangimi industriali, prodotti in larga misura da due o tre aziende.
Le formule di questi mangimi sono top secret; possono in questo modo metterci dentro di tutto e di più. Il mais e la soia, che sono i componenti principali (fino al 60/70%), sono in grandissima parte di importazione e di produzione transgenica, perché costano meno.
Contrariamente alle normative per i bovini, i mangimi per pollame e tacchini possono contenere farine di carne e di pesce, pannelli di olio esausto, grassi di origine animale. La vicenda di due anni fa dei polli belgi alla diossina è dovuta a un “eccesso” di PCB  ma, se si rientra nei limiti tollerati, è legale dare da mangiare ai polli anche oli esausti di motori.
Ma i risultati migliori si ottengono con le proteine animali derivate dalle interiora, dalle teste, dalle zampe e dalle piume ottenute dai loro simili morti in precedenza, oltre alle proteine animali acquistate dove costano meno (farine di sangue e di pesce).
Di queste proteine, ai polli ed ai tacchini ne vengono somministrate una quantità fino al 30% nel tacchino, un po’ meno per il pollo.

Si ottengono dei pulcinotti venduti come galletti o tacchini, con una carne senza gusto né qualità organolettiche, e di dubbia salubrità.
I polli così allevati, se li cucini due minuti di più letteralmente si sbriciolano, e se li lasci raffreddare rilasciano il classico odore di pesce con cui sono stati parzialmente allevati. Oggi la carne di pollo non viene offerta da nessun ristorante degno di questo nome. Viene data solo nelle mense delle fabbriche, delle scuole o per le tavole delle famiglie sotto i mille euro al mese.
Per i tacchini è ancora peggio: la carne è letteralmente immangiabile.
I nostri 7000 veterinari pubblici, come da precise istruzioni, guardano, registrano, e alla fine non possono fare altro."

Entro il 2018 il mercato dei mangimi per pollame genererà ricavi per 252 miliardi di dollari e il mercato dei soli additivi dovrebbe arrivare a 7,8 miliardi di dollari, con un CAGR (Compounded Annual Growth Rate, ovvero tasso di crescita annuale composto) maggiorato rispettivamente del 6,1 e del 6%. Le stime arrivano dal report "Poultry Feed Market by Type (Layers, Broilers, And Turkeys), by Additives, (Antibiotics, Vitamins, Antioxidants, Amino Acids, Feed Enzymes, And Feed Acidifiers) & by Geography - Global Trends & Forecasts To 2018", realizzato da Markets&Markets, società internazionale di ricerche di mercato e di consulenza. Un mercato in fiorente crescita, si legge nel report, grazie all'aumento della richiesta, a livello mondiale, del consumo di proteine di origine animale.

Il report definisce e segmenta il mercato dei mangimi destinati ai polli (da carne e da uova) e ai tacchini ed effettua analisi e proiezioni sui valori e sui volumi di questo mercato, oltre a svolgere uno studio delle tendenze e delle opportunità e a mettere in evidenza i fattori trainanti e di freno per questo settore.

Per allevare il pollame in modo sano è necessario che il mangime che viene somministrato agli animali abbia le giuste quantità di proteine, carboidrati, vitamine e sali minerali. Molto importanti sono però anche gli additivi per mangimi: questi vengono infatti aggiunti alla formula per migliorare l'efficienza della crescita degli uccelli, la loro resistenza alle malattie e per migliorare l'assorbimento dei nutrienti contenuti nei mangimi stessi.

La Food & Drug Administration degli Stati Uniti ha ammesso che nelle fabbriche di allevamento, la carne di pollo venduta, contiene arsenico, una sostanza chimica tossica cancerogena che in alte dosi può essere fatale. Potrebbe sembrare incredibile ma non è una coincidenza. L’arsenico viene aggiunto al mangime dei polli a livello internazionale.
La ricerca sul FDA ha dimostrato che l’arsenico presente nel mangime dei polli finisce nella carne che infine viene  ingerita dagli umani.
Per la maggior parte degli ultimi 60 anni, i consumatori dagli Stati Uniti hanno consumato carne di pollo contaminata da arsenico.
Ma prima della pubblicazione dello studio della FDA, l’industria del pollame ha negato con veemenza che l’arsenico è stato aggiunto al cibo dei polli. Essi affermano che l’arsenico è solamente il prodotto della digestione dei polli stessi ed è rilasciato tranquillamente nelle feci.
Ma non c’è nessuna prova scientifica a base di questa affermazione, rendendo le loro richieste ancora peggiori. Questa storia si è divulgata sempre più rapidamente;  la Roxarsone, produttore di cibo per polli, rapidamente ha ritirato i suoi prodotti dagli scaffali dopo che è stato rilasciato questo studio.
La Roxarsone è subordinata alla Pzifer,chiamata Alpharma LLC.
Quindi la Pzifer, la grande casa farmaceutica, ha messo deliberatamente arsenico cancerogeno nel cibo per polli e quindi nei nostri corpi.








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lunedì 21 settembre 2015

LE BARRETTE



Le barrette proteiche sono integratori alimentari utili per coprire il fabbisogno proteico dello sportivo qualora risulti impossibile farlo con gli alimenti.
Le barrette proteiche contengono macronutrienti energetici (con almeno 20g di proteine), sali minerali e vitamine del gruppo B; il più delle volte non sono integratori alimentari "proteici puri" e la quantità di glucidi + lipidi le assimila più ad un gainer che alle classiche polveri del siero del latte, di caseine o dell'uovo.

Il fabbisogno proteico dell'adulto aumenta notevolmente con lo sport. Da 0,75g/kg di peso corporeo fisiologico utili al sedentario, nell'atleta si raggiungono comunemente fabbisogni >1,5g/kg; in tal caso, per raggiungere tali livelli SENZA incrementare eccessivamente la porzione di grassi saturi e colesterolo (presenti in molti alimenti ricchi di proteine ad alto valore biologico), integrare diventa una necessità. D'altro canto, non è sempre possibile trasportare barattoli, misurini e borracce per la miscelazione delle polveri e risulta più semplice consumare le barrette proteiche; queste, rispetto agli altri integratori in polvere, possiedono una maggior duttilità e praticità poiché risultano: tascabili, conservabili e monoporzione.

Nelle barrette proteiche, la frazione peptidica è costituita da polimeri di alto valore biologico; le diverse proteine sono TUTTE ricche in amminoacidi a catena ramificata (substrato di ossidazione nello sforzo muscolare) e altri amminoacidi essenziali, pur mostrando caratteristiche di digeribilità e assorbimento diverse tra loro.
I peptidi più utilizzati nella composizione delle barrette proteiche sono: proteine del siero (a rapido assorbimento) e proteine caseine (a lento assorbimento), la cui associazione garantisce una perfusione di amminoacidi nel sangue rapida ma duratura.
Nonostante le barrette proteiche apportino almeno 20g di proteine per porzione, i nutrienti quantitativamente più presenti sono i glucidi!

Le barrette proteiche, essendo molto caloriche, risultano meno adatte rispetto alle "polveri pure" nel distribuire la quota proteica giornaliera... soprattutto nei soggetti in sovrappeso o nei culturisti in fase di definizione muscolare.



Le barrette proteiche sono spesso oggetto di abuso alimentare; può accadere che, soprattutto nella cultura estetica e nel fitness, la disinformazione nutrizionale induca gli utenti a consumare più proteine di quanto necessitino realmente, alterando di conseguenza il bilancio nutrizionale complessivo; a tal proposito, ricordiamo che un eccesso proteico nella dieta (a volte difficile da stimare) può essere oggetto di affaticamento renale e affaticamento epatico.
Inoltre, per favorire la percentuale proteica senza eccedere con le calorie, è necessario ridurre le grammature dei carboidrati e/o dei grassi (quest'ultima più difficile da intaccare); ebbene, per chi svolge attività aerobica, intervenire negativamente sulla porzione dei carboidrati determina:
Un PEGGIORAMENTO della prestazione per scarsità delle riserve energetiche
Con allenamenti intensi e ravvicinati, un CATABOLISMO muscolare per neoglucogenesi protratta
Un altro aspetto controverso riguarda la qualità di alcuni ingredienti inseriti nella formulazione di molte barrette proteiche commerciali; esaminando la lista degli ingredienti non è infatti raro notare la presenza di grassi vegetali (che seppur non idrogenati sono in genere di scarsa qualità, perlopiù derivati da oli tropicali) e di zuccheri semplici come lo sciroppo di glucosio o quello di fruttosio. Tali ingredienti sono necessari per dare gusto e sapidità al prodotto, rendendolo di fatto simile ad uno
Le barrette proteiche NON sono pasti sostitutivi e possono essere impiegate SOLO come integratori alimentari; in alcuni casi, l'abuso di barrette proteiche può indurre: diarrea, dolori e crampi addominali, incremento della massa GRASSA e alterazioni metaboliche.

Il business delle barrette dietetiche è in costante crescita. Questa particolare categoria di alimenti, una volta acquistabile solo in farmacie ed erboristerie, è ormai presente anche nei supermercati e da qualche anno viene venduta per via elettronica.

Il successo delle barrette dietetiche è riconducibile a due importanti caratteristiche:
la praticità: dal momento che si possono consumare ovunque in qualsiasi momento senza bisogno di dover preparare il pasto o lo spuntino la sera precedente. Facilmente trasportabili in borsa o in auto, le barrette sono senza dubbio più pratiche dei surgelati ed ancora più veloci dei fast food,
l'aggettivo dietetiche che per molti è sinonimo di dimagrimento. Nell'immaginario comune le barrette sono infatti alimenti molto più salutari degli snack tradizionali, sia sotto un profilo quantitativo che qualitativo.
Entrambi questi aspetti si sposano perfettamente con le esigenze della moderna società, in cui è molto importante l'aspetto fisico. I ritmi frenetici imposti dallo stile di vita attuale inoltre tendono a rubare il tempo anche per i gesti più semplici, come il mangiare. Tutto ciò spiega la crescente diffusione di questi alimenti che si associa ad un vero e proprio business del settore in cui le vendite ed i guadagni vengono prima della salute del consumatore.
Parallelamente la produzione di barrette dietetiche è passata da un ambito esclusivamente farmaceutico, ad un mercato in cui trovano spazio sia le sempre più diffuse ditte di integratori, sia le le stesse società da sempre produttrici di snack ipercalorici.
Oggi è possibile scegliere tra numerose tipologie di barrette con gusti e caratteristiche completamente differenti, per il consumatore medio non è però così semplice orientarsi nell'acquisto dei prodotti migliori.
Si tratta di barrette di dimensione superiore alla media il cui peso peso varia generalmente dai 45 ai 120 grammi per porzione.  Vengono utilizzate per sostituire un pasto completo e per questo motivo contengono o dovrebbero contenere  tutti i vari nutrienti (carboidrati, proteine, Grassi, minerali e vitamine) nelle giuste proporzioni. Anche la presenza di fibre è molto importante, poiché conferisce all'alimento un maggior potere saziante.
Queste barrette sono molto utili per chi vuole rispettare il vincolo calorico imposto dalla dieta. La loro praticità di utilizzo associata ad un contenuto calorico fisso le rende un sostituto ideale al ristorante o alla mensa aziendale. Mangiando fuori casa si corre infatti il rischio di incappare in alimenti ipercalorici preparati utilizzando condimenti in grado di migliorarne l'appetibilità (burro, panna, oli ecc.).

Le barrette energetiche sono nate in ambito sportivo per garantire un rifornimento energetico efficace in gara o durante gli allenamenti. Il loro impiego è utile in tutte quelle situazioni che richiedono uno sforzo particolarmente prolungato.
Ovviamente un centometrista impegnato in uno sprint non ha certo bisogno di scartare una barretta energetica durante i 10 secondi o meno di gara, esigenza che potrebbe però avere un ciclista nel corso di una lunga granfondo.
Anche le persone sedentarie o che praticano sport a livello amatoriale dovrebbero astenersi dall'acquisto di questa particolare tipologia di barrette. Si tratta infatti di alimenti molto ricchi di carboidrati ed in particolare di maltodestrine che ne aumentano la digeribilità ma che rendono la barretta molto calorica e poco saziante.

Le barrette ad elevato contenuto proteico sono diffuse soprattutto nel mondo del fitness e delle palestre. Anche in questo caso ne esistono di vari tipi, alcune bilanciate nella ripartizione dei nutrienti altre contenenti principalmente proteine con pochi grassi e pochissimi carboidrati. Vengono commercializzate per lo più da aziende di integratori e purtroppo sono spesso prodotte a partire da ingredienti di scarsa qualità. In molti casi  leggendo con attenzione le etichette alimentari si scopre di trovarsi di fronte ad uno snack tradizionale camuffato da barretta, che si distingue solo per un maggior contenuto proteico e per un prezzo fortemente lievitato. Non a caso la maggior parte di queste ditte delega la produzione di barrette ad altre aziende che operano nell'industria dolciaria.
Ovviamente sul mercato sono stati introdotti anche prodotti di buona qualità e per questo motivo è molto importante saper scegliere.
Per esempio quando si acquista una barretta a zona, non si deve controllare soltanto il rapporto tra carboidrati, proteine e grassi (40,30,30), ma bisogna verificare che contenga anche il giusto quantitativo di acidi grassi polinsaturi.








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BIBITE GASSATE



Le bibite gassate non solo non rappresentano una bevanda indispensabile per la nostra salute, ma anche un vero e proprio non-alimento, responsabile della diffusione di patologie come obesità, carie e diabete.

Bere bibite gassate e zuccherate non soltanto comporta implicazioni negative per il nostro organismo e per l'ambiente, a causa dell'inquinamento e dello spreco di preziose risorse idriche, ma anche implicazioni sociali legate allo sfruttamento dei lavoratori. Smettere di bere bibite gassate significa anche boicottare le multinazionali produttrici delle stesse.

Le bibite gassate sono solitamente ricche di zuccheri e di dolcificanti, provocano gonfiore e incrementano, senza che chi le consuma se ne renda particolarmente conto, l'introito giornaliero di calorie; berne una lattina al giorno può provocare un aumento di peso considerevole, rispetto a quanto avverrebbe preferendo l'acqua.

Le bibite gassate pubblicizzate come "diet" spesso non sono altro che un inganno e non di certo un toccasana per la salute. Possono infatti spingere l'organismo a rilasciare insulina al fine di assorbire degli zuccheri che in realtà non arriveranno mai tramite l'assunzione della bevanda. Ne risulta un incremento della produzione di cellule adipose.

L'impiego di dolcificanti artificiali all'interno delle bibite gassate è molto frequente, sebbene vi siano studi scientifici che mettono in guardia dal ricorso ad essi dal punto di vista della salute. L'assunzione di alcuni dolcificanti artificiali sarebbe stata legata al rischio di cancro. Lo stesso zucchero raffinato dovrebbe essere considerato come una vera e propria sostanza nociva per l'organismo.

Alcuni studi scientifici attraverso la campagna volta a scoraggiare il consumo di bibite gasate "The Unhappy Truth About Soda", hanno posto in correlazione il consumo di tali bevande con la diffusione, soprattutto nel mondo occidentale, di patologie del "benessere", quali il diabete di tipo 2.

Consumare bibite gassate pone a serio rischio la bellezza del proprio sorriso. Alcune sostanze contenute in tali bevande infatti contribuiscono a rovinare in maniera grave lo smalto dei denti. Sapete che nel momento in cui vi apprestate a bere una delle più comuni bibite gassate, state esponendo i vostri denti ed il vostro apparato digerente a considerevoli quantità di acido fosforico?

Coloro che consumano bibite gassate in modo quotidiano, o quasi, hanno mai pensato di calcolare l'ammontare del budget familiare destinato ogni anno all'acquisto di bevande il cui consumo non è indice di una sana alimentazione? Smettere di acquistarle rappresenterà un vero e proprio guadagno sia per il portafogli che per la salute.

La presenza di coloranti artificiali di dubbia provenienza all'interno delle bibite gassate dovrebbe mettere immediatamente in guardia ognuno di noi, e soprattutto i genitori che le acquistano per i propri bambini, dal loro consumo. Coloranti come la tantrazina, utilizzata non soltanto nelle bibite gassate, ma anche in caramelle, gelati, yogurt e minestre confezionate, sono stati correlati allo sviluppo di iperattività nei più piccoli.

Il consumo di bibite gassate abitua le papille gustative ad avvertire un sapore artificialmente dolce che verrà ricercato nel momento in cui ci si dedicherà a gustare altre bevande o alimenti, comportando una vera e propria alterazione della percezione del gusto. Diminuendo le quantità di zucchero raffinato consumato giornalmente - e di bevande eccessivamente dolci - si ricomincerà ad apprezzare il reale sapore degli alimenti più salutari.

L'acquisto di bibite gassate in lattina o in bottiglia ha una conseguenza immediatamente prevedibile per l'ambiente: l'incremento del quantitativo di rifiuti prodotti quotidianamente da parte di coloro che le acquistano. Smettere di bere bibite gassate significa ridurre il proprio impatto ambientale ed inquinare di meno.
In passato, alcune delle più note multinazionali produttrici delle stesse, sono state accusate di sottrarre illegalmente acqua potabile alle popolazioni povere dell'India, oltre che di sfruttamento dei lavoratori, stavolta proprio in Italia.



Acidi e zuccheri contenuti nelle bevande gassate favoriscono le malattie: è necessario ridurre drasticamente il consumo, o meglio ancora, evitarle.  Il consumo assiduo di bibite fa male alla salute. Per chi inizia un percorso per il proprio benessere personale, non è difficile mettere a fuoco gli alimenti peggiori per la propria salute. Tra questi ci sono le bevande gassate in quanto sono causa di una serie innumerevoli di problemi per il nostro corpo, che nel tempo favoriscono l’insorgere di malattie anche gravi.

Uno dei primi effetti è l’abbassamento del livello di potassio nel sangue che ha come conseguenza la debolezza muscolare e  anche problemi cardiaci. La perdita di potassio è dovuta principalmente alla presenza di glucosio, fruttosio e caffeina, fra i principali ingredienti delle bibite gassate più diffuse. Segue il fegato, l’importante organo che si occupa della depurazione del sangue: con le bibite lavora tanto, troppo, e si indebolisce. E poi i reni, che filtrano tutti i liquidi, compresi gli acidi delle bibite che trovandosi a passare da questo importante organi possono combinarsi con altre sostanze e formare i calcoli renali. Ma anche se non si arrivasse a questo, alla lunga ne deriverebbe comunque un indebolimento renale.
Bere bibite gassate – in particolare a pranzo – porta ad un incremento di peso (anche con quelle classificate come dietetiche). Le quantità di zucchero contenute nelle bevande gassate più diffuse sono inimmaginabili. Basti pensare che in una lattina di Coca Cola ci sono 39 grammi di zucchero.
Ed ecco il diabete: il consumo di bevande (molto) zuccherate indebolisce la capacità del corpo di gestire il livello di zucchero nel sangue e porta cosi ad un aumento del diabete nella popolazione. E poi non sottovalutiamo la carie e la conseguente possibile caduta dei denti. Gli acidi contenuti nelle bibite sciolgono lo smalto e insieme allo zucchero velocizzano la  carie. L’effetto è simile a quello che si ottiene versando dell’acido sui denti.

Se non ne avete ancora abbastanza le bevande gassate promuovono la formazione della cellulite, stimolano a ritenzione idrica e – acidificando – fanno anche invecchiare più velocemente. Già alcuni anni fa una ricerca condotta dai medici di Harvard (USA) aveva concluso che il maggior responsabile dell’invecchiamento precoce è l’acido fosforico che rende i soft drink gustosi, inoltre questo ingrediente – l’acido fosforico – ha effetti negativi su pelle e  muscoli, e nei casi più gravi può anche comportare gravi sia al cuore che ai reni. Anche se è ormai noto che le bibite gassate sono state oggetto di molte ricerche è bene ricordare che  tutte hanno concluso che consumate abitualmente (cioè qualche volta a settimana) fanno male: nonostante ciò milioni di persone le consumano abitualmente, basta osservare i consumi nei bar, nei fast-food, o i banchi dei supermercati.
L’acido fosforico  inoltre, esso consuma le ossa, indebolendo l’intera struttura scheletrica, abbassando sensibilmente il livello di calcio nell’organismo, e favorendo l’insorgere dell’osteoporosi (che non si previene con latte e  latticini come abbiamo spiegato recentemente).
Altro effetto, ma non certo l’ultimo, legato al consumo di acidi – soprattutto a stomaco vuoto – è quello dell’azione sull’equilibrio acido-basico dello stomaco, che acidificandosi e creando infiammazioni favorisce tutta una serie di patologie dell’apparato digerente.

Le bibite gassate hanno un qualcosa che ci conquistano, che ce ne fanno bere una dopo l’altra tutti i giorni, e di certo vi chiedete: che cosa può esserci di negativo in questa abitudine se, a quanto dicono, queste bevande sono energetiche e danno un senso di sazietà nello stomaco che riducono l’appetito?

Il processo di produzione delle bibite gassate è piuttosto semplice: la miscela di acqua filtrata, diossido di carbonio, edulcoranti (sostanze che conferiscono un sapore dolce) e acidulanti (sostanze che modificano o controllano l’acidità) permette di preparare una bibita rinfrescante che si può bere in qualsiasi punto di ristoro. Tuttavia, i loro inizi e primi sviluppi furono nell’industria farmaceutica, visto che erano utilizzate come tonici per alleviare il mal di testa e l’indigestione.

Sono trascorsi molti anni da quegli inizi e molte sono le varianti di bibite gassate in commercio. Hanno diversi colori, odori e sapori, ma sono tutte effervescenti e analcoliche.

Molte di queste bibite gassate contengono un’alta concentrazione di caffeina. La caffeina è un alcaloide che ha effetti stimolanti sul sistema nervoso autonomo e sul cuore, così che stimola lo stato di veglia e la resistenza alla stanchezza, oltre ad essere un potente vasodilatatore. Tuttavia, questi sono tutti i suoi benefici. Il consumo eccessivo di caffeina provoca dipendenza, mal di testa, aritmia cardiaca, insonnia e ansia. Gli stessi sintomi si presentano se assumete troppo caffè o tè al giorno.

Le bibite gassate devono avere un sapore e un colore accattivante, oltre a doversi conservare in buono stato per molto tempo. È per questo motivo che vengono aggiunti numerosi conservanti, acidulanti e additivi chimici che possono risultare molto dannosi per il sistema renale. Queste sostanze tendono ad accumularsi nei tessuti provocando la comparsa di cellule cancerogene e, a lungo termine, lo sviluppo di un tumore. Non lasciatevi ingannare dal fatto che alcune sono antiossidanti, il vostro organismo ha bisogno di antiossidanti naturali che può trovare nella frutta e nella verdura.

Si crede che, al contrario di ciò che si pensava in passato, le bibite gassate possono avere un effetto negativo sul processo digestivo. L’anidride carbonica presente in queste bevande aumenta l’acidificazione dei succhi gastrici e accelera la loro produzione, che a sua volta accelera la digestione, ma che allo stesso tempo causa reflusso gastroesofageo, acidità e problemi di assorbimento, che possono risultare particolarmente dolorosi nelle persone che soffrono di gastrite o ulcere allo stomaco.

Per evitare i problemi di peso e il diabete, non basta bere bibite gassate light. Dobbiamo avvertirvi che neanche gli edulcoranti sostitutivi dello zucchero possono essere ingeriti in grandi quantità perché sono sostanze che interferiscono su diverse reazioni metaboliche e che provocano danni cerebrali, perdita della memoria e che addirittura favoriscono lo sviluppo di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer.






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