sabato 27 agosto 2016

L'AMATRICIANA



Gli spaghetti all'Amatriciana, sono uno dei simboli della tradizione culinaria Italiana.

La ricetta originale, nata ad Amatrice, una piccola cittadina Laziale al confine con l'Abruzzo, prevede rigorosamente gli spaghetti e non i bucatini tant'è che persino i cartelli Comunali all'ingresso della città indicano "Amatrice, Città degli Spaghetti".

Nel tempo la ricetta è stata acquisita dalla cucina romanesca che ne ha modificato uno degli ingredienti base, gli spaghetti con i bucatini. In passato la ricetta era un pasto povero dei pastori ed era in bianco, solamente spaghetti, guanciale e pecorino e null'altro.

In questa versione originale della matriciana o amatriciana, non va assolutamente usata la cipolla , aglio in camicia e la pancetta.  L'errore che molte persone e ristoranti italiani fanno è l'uso della  cipolla e dell'aglio, anche se la cipolla e l'aglio ci possono stare bene, comunque ne altera il sapore. La ricetta chiamata matriciana e non amatriciana, come da testimonianze, in quanto  gli  abitanti di Amatrice usavano chiamarsi  “ Matriciani ”, senza la A di conseguenza anche la famosa pasta veniva chiamata  “ Matriciana ”, col tempo per un fenomeno linguistico è diventata amatriciana. Questo piatto era il pasto principale dei numerosi pastori che vivevano sulle montagne di Amatrice, ma la preparavano senza il pomodoro. Questa versione è chiamata pasta alla " Gricia  ". I pastori portavano nei loro zaini, pezzi di pecorino, sacchette di pepe nero, pasta essiccata, guanciale e strutto.

Con delibera 27/2015, il Comune di Amatrice ha formalizzato le ricette, sia della versione bianca, sia della versione rossa, in un Disciplinare di produzione De.C.O. Come chiaramente indicato nel disciplinare, non sono previsti né aglio né cipolla. Inoltre il Comune di Amatrice, col pieno supporto della Regione Lazio, nel 2015 ha iniziato il percorso, volto a ottenere il prestigioso riconoscimento europeo STG della salsa, per un'ulteriore tutela dell'originalità della ricetta. Come formato di pasta da condire nell'amatriciana originale, occorre rigorosamente usare quello degli spaghetti.



Per quanto originaria d'Amatrice, la ricetta si è diffusa a Roma e nel Lazio, diventando così uno dei piatti tradizionali della capitale e della regione. L'amatriciana esiste in diverse varianti, dipendenti anche dalla disponibilità di alcuni ingredienti. Mentre ognuno concorda sull'uso del guanciale, il pomodoro non è riportato nel manuale di Gosetti. La cipolla non è usata ad Amatrice, ma è riportata nei manuali classici della cucina romana. Sebbene nelle ricette più vecchie non venga indicato alcun grasso di cottura, o meglio sia utilizzato il grasso del guanciale, di solito come grasso di cottura viene usato prevalentemente l'olio extravérgine d'oliva. L'uso dello strutto è anche attestato.

L'uso dell'aglio soffritto in olio extravérgine d'oliva, prima d'aggiungere il guanciale, è anche possibile, mentre come formaggio può essere usato sia il pecorino romanosia quello di Amatrice (proveniente dai Monti Sibillini o dai Monti della Laga). L'uso di pepe nero o peperoncino è anche attestato.

È consuetudine condire con l'amatriciana gli spaghetti, i bucatini, i tonnarelli o i rigatoni.

L'amatriciana, adattata alle regole del Casherut, è presente nella cucina giudio-romana. Nella preparazione non si usano il pecorino o altri tipi di formaggi, si utilizza olio d'oliva al posto dello strutto e la carne secca di manzo sostituisce il guanciale di maiale.

Agli "Ingredienti degli spaghetti all'amatriciana e città di Amatrice", il 29 agosto 2008, è stato dedicato un francobollo, policromo e dentellato, emesso dalla Repubblica Italiana, del valore di 0,60 euro.

Ricetta della matriciana per  4  persone

400 grammi spaghetti di pasta secca di semola di gran duro di produzione italiana di alta qualità.

250 grammi guanciale di Amatrice, (da non usare la pancetta è ricavata dalla pancia del maiale troppo salata, ne altera il sapore). Il guanciale è ricavato dal muso del maiale quindi è un grasso più nobile con il sapore più delicato e profumato è l'ingrediente indispensabile per la preparazione della matriciana, senza di esso, non è sugo alla matriciana.

500 grammi di pomodoro fresco quello casalino rosso e ben maturo in alternativa scatola di pelati.

150 grammi di pecorino di Amatrice, il sapore molto delicato, non salato e leggermente piccantino , (evitare quello romano, al palato risulta forte e  salato, ne altera il sapore ).

1 cucchiaio di strutto, all'epoca si usava lo strutto con il suo sapore dolce e delicato, e serviva anche come lubrificante per le padelle in ferro. (da non usare l'olio, con la sua acidità ne altera il sapore).

1 peperoncino rosso non troppo piccante.

1 pugno di sale grosso per la pasta.



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giovedì 25 agosto 2016

MACELLAZIONE ISLAMICA



Sia la legge islamica che i precetti ebraici prescrivono una serie di regole da seguire per rendere la carne commestibile ai fedeli di queste religioni. Le caratteristiche del procedimento di uccisione dell'animale sono riassunte nel termine Halal (lecito), per i musulmani, e Kosher per gli ebrei, e non accettano lo stordimento preventivo.

L’animale, infatti, deve essere cosciente al momento dell’uccisione, girato su sé stesso con un mezzo obbligatorio di contenimento meccanico, e viene operata la recisione di trachea ed esofago, ma senza spezzare la colonna vertebrale, perché durante la procedura la testa dell'animale non si deve staccare.

Questa pratica, estremamente cruenta, è consentita in Italia solo se praticata in uno degli oltre 200 macelli autorizzati, ma non sono rari i casi di macellazione “familiare”, eseguita per festeggiare delle ricorrenze religiose, pratica illegale e perseguibile per legge (Regolamento comunitario 1099/2009, Decreto Legislativo 131/2013 - articolo 6 del Decreto Legislativo 6 novembre 2007, n. 193 - articolo 544 bis del Codice penale).

La carne di bestie da macello (bovini, ovini, caprini) e di bestie da cortile (conigli e pollame) è lecita soltanto se la macellazione sia stata eseguita con l’osservanza delle seguenti regole:

1) il macellatore deve essere musulmano;

2) la bestia deve essere orientata fisicamente in direzione della Mecca;

3) il taglio della gola deve essere eseguito:

a) con una lama affilatissima, che non deve intaccare la spina dorsale e non deve essere ritirata finché non siano stati recise le arterie carotidi, le vene giugulari, la trachea e l’esofago;

b) con un solo colpo;

c) alla base del collo, se il collo è lungo (cammello, giraffa, struzzo, oca…) e nella parte più alta del collo se il collo non è lungo (bovini, ovini, caprini);

d) con la mano destra, mentre la sinistra tiene ferma la testa della bestia;

4) la bestia deve essere trattata con rispetto, accarezzata, tranquillizzata, fatta adagiare sul fianco sinistro, in un luogo dove non ci siano tracce di sangue o bestie macellate in precedenza, onde evitare che l’odore del sangue terrorizzi la bestia;

5) le gambe della bestia vanno legate, ad eccezione di quella destra posteriore, che deve essere lasciata libera per dare alla bestia la possibilità di muovere l’arto, attività che la tranquillizza.

6) il taglio non deve essere preceduto da stordimento della bestia;

7) il taglio deve essere preceduto dalla formula “bismillàhi Allàhu àkbar!”

Il metodo di macellazione islamica ha due finalità principali:
1) ottenere carne scevra di sangue;
2) non far soffrire la bestia.

Con il metodo di macellazione sciaraitico le carni della bestia macellata vengono totalmente dissanguate. Infatti, dopo lo scannamento (il taglio delle canne del collo) il cuore continua a pompare e i polmoni continuano a respirare. La respirazione ha per effetto l'ossigenazione del sangue, che è ancora in circolazione. Con la recisione dell'aorta cessa l'afflusso del sangue al cervello, che entra, immediatamente, in una condizione di completa anossia (mancanza di ossigeno). La mancanza di ossigeno nel cervello (anossia cerebrale) provoca, attraverso la spina dorsale, le contrazioni dei muscoli. Le contrazioni muscolari producono l'espulsione del sangue dai tessuti fino all'ultima goccia; a questo punto l'emorragia cessa, il cuore si arresta e la respirazione si ferma. Questo è il primo risultato: la carne è completamente scevra di sangue, dissanguata.

Il secondo risultato è quello di non far soffrire la bestia; la qual cosa si verifica a causa della subitanea interruzione dell'ossigenazione delle cellule cerebrali in conseguenza dell'imponente emorragia, derivante dalla recisione delle arterie, che irrorano il cervello. Lo "scannamento" produce, inoltre, un'immediata "anestesia totale", perché il centro cerebrale del dolore cessa immediatamente, di funzionare.

La mancanza di ossigeno nel cervello (anossia cerebrale) provoca le contrazioni ed esse sono la prova che la bestia non soffre e non, come erroneamente si crede, la prova della sua sofferenza. Pertanto, il metodo di macellazione islamica, oltre a consentire il totale dissanguamento della bestia macellata, rendendone commestibile la carne, è anche il metodo che realizza la morte indolore della bestia.

L’ Italia ha sussunto nel suo ordinamento giuridico la normativa della Comunità Economica Europea riguardante la macellazione. Le regole di questa normativa sono diverse dalla normativa giudaica e da quella islamica. Tuttavia, in ragione della potenza politica culturale economica e finanziaria della minoranza ebraica e della crescente presenza numerica di Musulmani in Europa, la Comunità ha previsto una deroga in favore della Comunità ebraica e della Comunità musulmana, ammettendo la macellazione rituale per consentire agli Ebrei il consumo di carne kashèr e ai Musulmani il consumo di carne halàl.

La normativa C.E.E. prevede che la macellazione rituale debba essere eseguita da “macellatori”, incaricati dalle rispettive Comunità e accreditati presso i macelli dagli organi rappresentativi delle medesime, i quali devono controllare il pieno rispetto delle regole.

Pertanto, in Italia, l’esecuzione di “macellazione islamica” presso i Macelli a essa autorizzati, in quanto in possesso delle attrezzature richieste dalla normativa CEE, è conforme alla legge in vigore, solamente se eseguita da macellatori  musulmani, che siano accreditati (presso i Macelli autorizzati alla "macellazione in deroga per motivi religiosi") dall’autorità islamica locale (Il Centro Islamico di Milano e Lombardia).

Gli attacchi contro il metodo di macellazione islamico ‘Halal’ da parte degli animalisti, che raccontano la "favola" di un barbaro e sanguinario rito di macellazione, sono in costante aumento.

E’ senz’altro vero che quando il sangue fuoriesce dalla gola di un animale la scena che si presenta ai nostri occhi sembra piuttosto violenta, ma il fatto che al giorno d’oggi la carne venga acquistata nei supermercati, in pulite ed igieniche confezioni, non significa che l’animale non abbia dovuto morire.



I metodi di macellazione non-islamici impongono che l’animale non sia cosciente prima della sua uccisione e questo è di solito ottenuto attraverso lo stordimento o l’elettronarcosi. E’ davvero meno doloroso sparare un colpo di pistola nel cervello di una pecora o mettere un anello al collo di un pollo, che incidere la sua gola? Il semplice assistere alla scena non può darci un’idea oggettiva di ciò che l’animale prova.

Un’equipe dell’Università di Hannover in Germania ha esaminato i due metodi analizzando le registrazioni prodotte dall’elettroencefalogramma (EEG) e dall’elettrocardiogramma (ECG). In tutti gli animali utilizzati per l’esperimento sono stati chirurgicamente impiantati un certo numero di elettrodi in diverse parti del cranio; successivamente a tali animali sono state concesse alcune settimane di tempo per ristabilirsi.

In seguito una parte di essi è stata macellata con il metodo islamico ‘halal’, ovvero una rapida e profonda incisione sul collo da lato a lato, fatta con una lama molto affilata, che taglia la vena giugulare e l’ arteria carotidea insieme alla trachea e all’esofago, ma lascia intatta la spina dorsale.

La restante parte del bestiame prima di essere macellata è stata stordita con il metodo della pistola a proiettile captivo, tipico dei mattatoi dell’Occidente.

Le registrazioni dell’EEG e dell’ECG hanno permesso l’osservazione delle condizioni del cervello e del cuore durante tutto il processo.

Con il metodo ‘halal’ non è stato registrato nessun cambiamento nel grafico dell’EEG per i primi 3 secondi successivi all’incisione, indicando che l’animale non ha sentito nessun dolore dovuto al taglio.

I seguenti 3 secondi hanno registrato una condizione di incoscienza simile ad uno stato di sonno profondo causato dalla perdita di enormi quantità di sangue. Da quel momento in poi l’EEG ha riportato valori pari a zero che indicano un’assenza totale di dolore, nonostante il cuore stesse ancora battendo ed il corpo era in preda a forti convulsioni, un riflesso condizionato della spina dorsale.

E’ questa la fase più sgradevole per chi assiste, che si convince erroneamente che l’animale stia soffrendo mentre il suo cervello in realtà non registra più nessun messaggio sensoriale.

Con il metodo occidentale gli animali erano in apparenza incoscienti dopo lo stordimento e questo metodo di uccisione apparirebbe essere, per l’osservatore, molto più pacifico.

Ciononostante la lettura dell’EEG ha indicato un dolore acuto subito dopo lo stordimento. Mentre nel primo esempio l’animale comincia a sentire dolore a causa della "fame" di ossigeno e sangue del cervello – la morte del cervello, per dirla in parole semplici -, il secondo esempio di macellazione provoca prima l’arresto del cuore, mentre l’animale è ancora capace di provare dolore.

Non si assiste, comunque, alle sgradevoli convulsioni, il che non solo significa che c’è più ritenzione di sangue nella carne, ma anche che questo secondo metodo si presta molto meglio alla domanda di efficienza delle moderne procedure di macellazione di massa.

Il metodo dello stordimento rende la macellazione di massa più facile e più accettabile al consumatore, che può ingannare se stesso sul fatto che l’animale non abbia sentito nessun dolore, quando va a comprare il suo pezzo di carne, pulita ed impachettata, al supermercato.

Il metodo ‘Halal’, al contrario, non cerca di negare che il consumo di carne significa che gli animali devono morire, ma è eseguito in maniera tale da provocare il minor dolore possibile.

L’Islam è un modello di vita bilanciato. Per i musulmani il privilegio di integrare la propria dieta con proteine animali indica un dovere nei confronti del benessere dell’animale stesso, sia durante l’allevamento che durante la macellazione.

I moderni metodi di allevamento e macellazione occidentali, al contrario, puntano ad un mercato di consumo di massa e trattano l’animale come merce. Così come le batterie di galline sono più adatte alla produzione di quantità di uova su larga scala, anche i metodi di macellazione occidentali sono migliori per l’industria della carne, ma non sono favorevoli né all’animale, né al consumatore.

Il modello islamico garantisce una vita più sana per l’animale ed una carne più salutare per il consumatore.




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martedì 23 agosto 2016

LA FIORENTINA



La storia della bistecca alla fiorentina è antica almeno quanto la città da cui prende il nome e se ne perdono le tracce indietro nel tempo. Tuttavia la sua tradizione, la sua celebrità e il suo nome si possono far risalire alla celebrazione della festa di San Lorenzo e alla famiglia dei Medici. In occasione di San Lorenzo, il 10 agosto, la città si illuminava della luce di grandi falò, dove venivano arrostite grosse quantità di carne di vitello che venivano poi distribuite alla popolazione.

Firenze all'epoca dei Medici era un importante crocevia dove si potevano incontrare viaggiatori provenienti un po' da ogni parte del mondo e così si narra che proprio in occasione di un San Lorenzo fossero presenti alle celebrazioni alcuni cavalieri inglesi a cui venne offerta la carne arrostita sui fuochi. Questi la chiamarono nella loro lingua beef steak riferendosi al tipo di carne che stavano mangiando. Da qui una traduzione adattata alla lingua corrente creò la parola bistecca che è giunta fino ai giorni nostri.

Una versione alternativa la fa risalire agli inglesi, presenti a Firenze nell'800, i quali hanno lasciato notevoli tracce nella cucina toscana. Si trattava di persone facoltose, che potevano permettersi anche tagli di carne pregiata, come la beef steak, appunto, ma anche come il roast beef, peraltro anch'esso presente nella cucina fiorentina.

La bistecca fiorentina è un prodotto tipico italiano, appartenente al 1° gruppo degli alimenti; le sue radici sono toscane, per la precisione affondando nella zona di Firenze. Tuttavia, come si può constatare paragonando la bistecca fiorentina ad altre preparazioni simili (prevalentemente anglosassoni), sorge il dubbio che l'una possa aver determinato la nascita dell'altra.
Questo piatto rappresenta uno dei capostipiti della cucina nazionale, nonché il fiore all'occhiello degli orgogliosissimi toscani. Proprio per questo, in seguito alle restrizioni commerciali imposte dall'Unione Europea a causa della scoperta della BSE (Encefalopatia Spongiosa Bovina), e della conseguente messa al bando della colonna vertebrale bovina dal 2001 al 2005, il mercato dell'allevamento e quello gastronomico della bistecca fiorentina hanno subìto una notevole decaduta.
La bistecca fiorentina è un taglio della schiena bovina. La sua composizione nutrizionale varia molto in base all'animale di provenienza ma, a causa delle sue dimensioni (da intera), di certo non rappresenta un alimento idoneo allo stile di vita contemporaneo.

La sacralità della bistecca fiorentina ha da sempre reso molto difficile definirne le caratteristiche essenziali.La bistecca fiorentina è un taglio di carne ricavato dalla regione lombare inferiore del bovino appartenente al Genere Bos, Specie taurus: questo, anche detto bue (adulto) o vitellone (più giovane), è classificato con la nomenclatura binomiale di: Bos taurus. Ne esistono moltissime razze ma, per rispetto delle origini della bistecca fiorentina, è innegabile che la prediletta sia quella chianina. Tuttavia, non deludono le carni di altri animali come: la marchigiana, l'angus scozzese (molto grasso), il manzo argentino (dalla carne particolarmente uniforme) ecc. La scelta dell'una o dell'altra razza varia sensibilmente in base alle caratteristiche auspicabili della bistecca fiorentina (marezzatura, morbidezza, succulenza, grassezza o magrezza ecc.).
Sotto una prospettiva "generale", la bistecca fiorentina deve possedere alcune caratteristiche basilari e comuni ai vari tagli della carne bovina. Prima tra tutte, una macellazione corretta. La procedura di macellazione deve permettere di scolare quanto più sangue possibile (iugulazione) che, se trattenuto dai muscoli, conferirebbe un gusto ed un aroma tutt'altro che gradevoli. In secondo luogo, la suddivisione in mezzene, quarti, ed infine delle varie parti destinate al consumo, deve rispettare l'integrità ma anche la mondatura della lombata intera (dalla quale poi si otterranno le bistecche fiorentine). La lombata, da intera, subisce poi un processo di frollatura durante la quale gli enzimi intrinseci delle cellule muscolari modificheranno la consistenza, il gusto e l'aroma della carne. Si tratta di un processo (lungo almeno 15gg, da svolgere in cella frigorifera).

In linea generale, la bistecca fiorentina dovrebbe essere spessa circa 5cm e pesare circa 1,0-2,0kg.



La cottura della fiorentina è "al sangue".
Le linee guida per la cottura ed il servizio della fiorentina sono:
Garantire il perfetto stato della bistecca di origine: inteso come taglio, assenza di polvere o schegge d'ossa, frollatura e temperatura (rigorosamente "ambiente") della carne.
Applicare la giusta cottura: da svolgere solo su braci da legna (eventualmente anche da un buon carbone) longeve e "violente", ma prive di fiamma; la temperatura deve essere elevatissima poiché da essa (con brevissima distanza tra l'alimento e la fonte termica) dipendono l'incandescenza della griglia, prima, e la cicatrizzazione della carne poi. Questo processo è essenziale sia per conferire alla carne la tipica "rigatura", sia per conservare i fluidi organici (responsabili della succulenza, della morbidezza, dell'aroma e del gusto) all'interno dei muscoli. In breve, la bistecca fiorentina va cotta per circa un minuto attaccata alle braci, su un lato; poi, si eleva la griglia (ad una distanza doppia o tripla rispetto alla precedente) e si prosegue la cottura dallo stesso lato per circa 2 o 4 minuti. Lo stesso procedimento va svolto sul lato opposto, avendo cura di non bucarla per evitarne la disidratazione. Infine, la bistecca fiorentina va messa in piedi sull'osso per altri 5 minuti.
Il servizio della bistecca fiorentina deve rispettare alcune regole: anzitutto è necessario che si garantisca il mantenimento della temperatura della carne senza cuocerla ulteriormente (da scartare le piastre da servizio riscaldate a fiamma persistente; utili invece quelle già calde e senza fiamma sotto). Poi, la carne non deve essere scaloppata o tagliata dall'operatore in cucina. Ciò determina un raffreddamento precoce, una dispersione dei liquidi e una manipolazione gratuita. La bistecca fiorentina va servita integra, insipida e senza condimenti. Devono essere messi a disposizione del commensale: olio extravergine d'oliva robusto, macina-sale grosso, macina-pepe nero, rosmarino ed aglio freschi; il limone e le salse non rientrano tra i condimenti utili alla preparazione. I contorni più idonei sono: fagioli cannellini lessi e ripassati in padella, patate al forno (tradizionali), erbette cotte e ripassate in padella (cicoria - bietola - spinaci ecc.) o, più semplicemente, insalate a foglia dolce. Si consiglia di accompagnare la bistecca fiorentina a vini rossi e corposi; un ottimo vitigno è quello del Sangiovese (utili anche: Canaiolo, Colorino, Cabernet Sauvignon e Merlot). I prodotti più gettonati sono Chianti e Brunello o Rosso di Montalcino.

La bistecca fiorentina è un prodotto che non si presta all'alimentazione "globale". La cottura insufficiente (al cuore dell'alimento) rende la carne poco sicura dal punto di vista microbiologico e parassitario. E' pur vero che le materie prime ottenute da allevamenti e macelli certificati subiscono vari controlli veterinari, che spaziano dal ciclo vitale dell'animale, all'analisi pre- e post morten. Inoltre, il bovino (contrariamente al suino e al pollame) è decisamente meno predisposto alle parassitosi; tuttavia, una macellazione scorretta potrebbe infettare le carni per liberazione del contenuto intestinale della bestia. In conclusione, per ridurre al minimo il rischio di contagio, alle donne gravide è caldamente sconsigliato mangiare la carne di bistecca fiorentina "cotta da manuale".

Le proprietà chimiche di questo alimento variano per:
Razza ed età del bovino,
Caratteristiche soggettive e stato di nutrizione del bovino,
Posizione del taglio rispetto alla lombata, in virtù della percentuale di filetto o di lombo,
Livello di mondatura e rifilatura. La bistecca fiorentina non è una carne magra. Di per se, filetto e lombo non sono nemmeno tagli grassi (rispetto, ad esempio, alla pancia); d'altro canto, trattandosi di una bistecca che deve preservare lo strato lipidico e di tessuto connettivo esterni (invece eliminati nel filetto e nel lombo sezionati) è inevitabile che la percentuale di grassi risulti decisamente maggiore rispetto all'auspicabile. Il grasso visibile è comunque allontanabile al momento del consuno.
La fiorentina è quindi un alimento piuttosto energetico, con un discreto apporto di lipidi (nonché di colesterolo), ma anche di proteine ad alto valore biologico. I glucidi sono totalmente assenti, poiché il glicogeno muscolare viene degradato nel periodo della frollatura.
Per ciò che riguarda le vitamine, emerge un ottimo contenuto di vit. PP (niacina), mentre in merito ai sali minerali spiccano il ferro ed il potassio.
La frequenza di consumo della bistecca fiorentina non dev'essere maggiore di una volta a settimana; la porzione media consigliabile è di circa 150-250g di carne (a crudo, ma poi disossata e opportunamente sgrassata). Le scorpacciate di fiorentina sono particolarmente controindicate ai soggetti iperuremici (gotta) ed iperlipidemici (colesterolo e/o trigliceridi alti). I soggetti obesi o in sovrappeso avranno cura di limitare i condimenti e di abbinare la bistecca fiorentina ad un contorno di verdura fresca (utile anche per favorire l'eliminazione di idrocarburi aromatici policiclici e di altri prodotti di carbonizzazione sviluppatisi durante la cottura ad alte temperature); andranno quindi evitate le pietanze più grasse come le patate fritte o al forno ed il dolce a fine pasto.



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lunedì 22 agosto 2016

IL RABARBARO



Il rabarbaro è una pianta erbacea perenne che cresce spontanea in Europa e in Asia e che può essere anche coltivata nell'orto. Esistono numerose specie di rabarbaro (Rheum) considerate originarie del Tibet e della Cina.
Fin dall'antichità il rabarbaro veniva utilizzato sia a scopo ornamentale che a scopo medicinale soprattutto nelle popolazioni asiatiche con particolare riferimento alla Cina e alla Mongolia. La raccolta del rabarbaro avviene durante il secondo anno di coltivazione in primavera e in estate, soprattutto tra maggio e giugno. La specie di rabarbaro più diffusa e conosciuta è il rabarbaro cinese (Rheum palmatum) insieme al rabarbaro officinale.

Le specie del genere Rheum hanno un robusto rizoma carnoso da cui viene emesso ogni anno un nuovo apparato vegetativo che può raggiungere altezze anche superiori ai 200 cm.

Le foglie, di grandi dimensioni, sono in gran parte riunite in una rosetta basale, disposte con fillotassi alternata, con piccioli lunghi cilindrici e carnosi e lembo variabile da ovato-cordato a reniforme, semplice o palmato-lobato. Il margine è intero o dentato, più o meno ondulato.

I fiori sono bisessuali, riuniti in pannocchie terminali lungamente peduncolate che possono raggiungere alcuni decimetri di lunghezza. I singoli fiori hanno simmetria raggiata, con perigonio composto da sei tepali di colore bianco o giallastro. Stami in numero di 6 o 9. Ovario supero, contenente un solo ovulo.

Il frutto è una noce trigona con spigoli prolungati in un'ala membranosa.

Il rabarbaro è coltivato sia come pianta industriale per la produzione dei rizomi, sia come pianta ortiva per l'utilizzazione a scopo alimentare.

In entrambi i casi il ciclo colturale è biennale o poliennale in quanto nel primo anno la pianta ha una modesta vigoria. È una pianta rustica e abbastanza adattabile, tuttavia vegeta bene in terreni freschi, moderatamente umidi, ben dotati di sostanza organica e ben drenati. Predilige i terreni con reazione subacida, neutra o sub-basica poiché si adatta a valori di pH variabili da 6 a 8. È preferibile l'esposizione in piena luce, ma tollera bene anche un certo grado d'ombreggiamento.

Per l'impianto è sconsigliata la semina diretta in pieno campo alla quale va preferito il trapianto utilizzando piante di un anno d'età. Le piante vanno messe a dimora ad una distanza di 80-100 cm lungo la fila e con distanze fra le file in funzione del tipo di meccanizzazione adottato. La messa a dimora si effettua a novembre-dicembre nelle zone a inverno mite o a febbraio-marzo nelle regioni fredde.

La raccolta va fatta al secondo anno d'impianto per quanto riguarda il rizoma, oppure moderatamente anche al primo anno per i piccioli fogliari, avendo cura di lasciare un adeguato numero di foglie per consentire l'attività fotosintetica. L'epoca di raccolta è autunnale per il rizoma e primaverile, da aprile a giugno secondo le zone, per le foglie. In estate vanno asportati gli scapi con le infiorescenze in quanto la fioritura e la fruttificazione sottraggono energie alla pianta penalizzando soprattutto la produzione dei rizomi.

Le scelta della specie dipende dalle condizioni ambientali e dalla facilità di reperimento del materiale di riproduzione. Secondo le zone sono molto usate oltre al Rheum palmatum (Rabarbaro cinese), il Rheum officinale, il Rheum undulatum, il Rheum rhabarbarum. Nei climi caldi va fatta particolare attenzione nella scelta della specie, in quanto molte specie sono adatte a climi continentali con temperature estive non troppo alte. In Sardegna, in pianura, ha dato buoni risultati il Rheum undulatum in termini di rusticità, adattandosi bene a condizioni moderatamente siccitose e all'esposizione al sole.

Un tempo le radici di rabarbaro (termine che significa "radice barbara") venivano importate essiccate dalla Cina, poi la sua coltivazione di diffuse anche in Europa. In erboristeria si utilizza ancora il rizoma del rabarbaro dopo che è stato essiccato. Viene raccolto da piante che hanno raggiunto i 3 o 4 anni di età.

Per quanto riguarda gli usi erboristici con il rabarbaro, in particolare con il suo rizoma, si preparano decotti, infusi, tinture e estratti in polvere. I prodotti erboristici a base di rabarbaro vengono impiegati, ad esempio, in caso di stipsi, dismenorrea, amenorrea e per regolarizzare l'appetito.

Il forte effetto lassativo del rabarbaro è la maggiore controindicazione legata al suo uso eccessivo. L'assunzione di rabarbaro è controindicata in gravidanza e allattamento, nei bambini al di sotto dei due anni e nei pazienti che soffrono di problemi gastro-intestinali come le coliti. Le foglie di rabarbaro contengono molti ossalati, la loro assunzione è fortemente sconsigliata a chi soffre di calcoli renali e, in generale, le foglie di rabarbaro possono causare intossicazioni, dunque l'impiego del rabarbaro a livello erboristico e in cucina si limita soprattutto al rizoma e ai piccioli fogliari.



In cucina e nell'alimentazione il rabarbaro viene utilizzato tradizionalmente per la preparazione di liquori e digestivi, oltre che di marmellate, infusi, decotti e confetture. A livello di produzione industriale, il rabarbaro è spesso presente come ingrediente per aromatizzare le caramelle alle erbe o le caramelle balsamiche. Per le vostre ricette userete le coste del rabarbaro.

Il rabarbaro viene utilizzato per preparare ricette sia dolci che salate, a partire dalle classiche confetture, ma lo potrete scegliere anche per preparare un dolce, ad esempio una torta o una crostata, oppure un'insalata diversa dal solito da servire come contorno.

Il rabarbaro contiene il 93,5 % d’acqua, lo 0,9 % di proteine, lo 0,7 % di ceneri, l’1 % di zuccheri, lo 0,2 % di grassi e l’1,8 % di proteine.

Questi i minerali: calcio, potassio, magnesio, ferro, fosforo, manganese, sodio, zinco, rame e selenio.

Contiene vitamina A, le vitamine B1, B2, B3, B5, B6, vitamina C, vitamina E, K e J. Contiene inoltre beta-carotene, luteina e zeaxantina, acido gallico, tannico e cinnamico.

Gli antichi romani e i greci lo utilizzavano in modo massiccio grazie alle sue proprietà terapeutiche. Il suo impiego principale è quello lassativo ma, se assunto sotto forma di tisana prima dei pasti, può portare alcuni benefici al fegato ed alla digestione. Contiene antrachinoni che hanno proprietà lassative, dal lato opposto contiene anche tannini che hanno invece effetto astringente. Se assunto in piccole dosi il rabarbaro ha proprietà astringenti mentre in dosi più elevate funge da blando lassativo.
Scottature e ferite: da secoli è conosciuta la sua attività antinfiammatoria e, per uso esterno, viene impiegato, soprattutto in Cina, per curare scottature e ferite.
Antitumorale: è recente la notizia che riporta le proprietà antitumorali di un tipo di rabarbaro coltivato in Inghilterra. Pare che la sua cottura prolungata per 20 minuti sia in grado di aumentare i livelli di polifenoli che sappiamo essere agenti chimici in grado di uccidere le cellule tumorali.
Infezioni intestinali: viene impiegato in fitoterapia per combattere le infezioni dell’intestino infatti, grazie alle sue proprietà, riequilibra la situazione della mucosa intestinale.
Ha proprietà antisettiche, emollienti, antispasmodiche, diuretiche e toniche. La sua radice si utilizza per il trattamento della diarrea, per i disturbi a fegato e cistifellea,  per le emorroidi, per i problemi mestruali, per i brufoli e per depurare l’organismo.
Il rabarbaro è una delle verdure con il più basso apporto calorico, per questo motivo viene spesso inserito nella diete di quelle persone che vogliono perdere peso senza però trascurare la propria salute. L’impatto che i vari composti organici hanno sul metabolismo può anche aumentare la capacità del nostro organismo di bruciare i grassi.
La sua assunzione apporta benefici al sistema cardiovascolare e quindi al cuore. Questo vegetale infatti è estremamente povero di grassi e non contiene colesterolo. Grazie alla buona presenza di fibre alimentari il rabarbaro facilità l’eliminazione del colesterolo cattivo LDL prevenendo così la formazione di pericolose placche nelle arterie e le malattie cardiovascolari.
La grande quantità di composti antiossidanti contrasta l’attività dei radicali liberi ed apporta quindi benefici al sistema cardiovascolare ed alla salute del cuore.
I radicali liberi sono un sottoprodotto del metabolismo umano la cui attività può uccidere o trasformare le cellule sane in cellule malate, spesso il cellule cancerose. Il rabarbaro è ricco di beta-carotene e di composti fenolici come la luteina e la zeaxantina  che proteggono la pelle dai radicali liberi. Una dieta ricca di questi composti antiossidanti può prevenire l’insorgere di alcuni tipi di tumore come ad esempio quello alla bocca e ai polmoni ma non solo. La prevenzione si estende anche alla degenerazione maculare, alla cataratta ed all’invecchiamento precoce.
La presenza di ferro e rame stimola la produzione di nuovi globuli rossi aumentando l’ossigenazione del sangue e la sua circolazione.
Il rabarbaro è una buona fonte di vitamina K che svolge un ruolo molto importante per la salute del cervello e dell’attività neuronale. La vitamina K protegge infatti le cellule del cervello dall’ossidazione e stimola l’attività cognitiva con benefici in termini di prevenzione per quanto riguarda l’Alzheimer.
La presenza di vitamina K promuove la crescita ossea e ne stimola la riparazione in caso di danni. Insieme alla buona quantità di calcio il consumo di questo vegetale è quindi indicato per mantenere le ossa in salute.
Le foglie del rabarbaro non vanno consumate poiché sono tossiche e la loro ingestione provoca un forte bruciore alla gola con nausea e vomito.





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domenica 21 agosto 2016

CUCINA GRECA



La Grecia vanta una storia plurisecolare che tocca numerosi aspetti della cultura. Uno di essi è proprio la sua tradizione gastronomica, che ha influenzato le culture vicine e ne è stata influenzata sia nell'antichità sia in tempi più recenti.

Le fonti storiche e archeologiche suggeriscono che la cucina in Grecia antica fosse più articolata in quanto a tecniche e abbinamenti delle sue vicine già prima di Alessandro Magno. Successivamente quest'arte prese ad assumere maggiore rilievo sociale e, mano mano che la civiltà ellenica aumentava la sua influenza sui paesi vicini, le ricche famiglie rivaleggiarono in lusso e raffinatezza. Avere un cuoco all'altezza del proprio prestigio familiare divenne una necessità. Questo modello venne successivamente esportato presso i latini e si fuse con la loro cultura divenendo la base di alcune ricette che si ritrovano ancora oggi in tutto i bacino del Mediterraneo.

I greci prediligevano soprattutto carne rossa e alimenti provenienti dalla pesca accompagnati da diverse varietà di vino, birra e idromele.

Mentre le origini di vari piatti della cucina greca risalgono al periodo dell'antica Grecia (Retsina, Pasteli), al periodo ellenistico (Loukaniko) o a quello bizantino (Feta, Avgotaraho), molti altri piatti tuttora ampiamente diffusi sono parte della tradizione della cucina ottomana e i loro nomi rivelano origini turche, arabe o persiane: Moussakà, Tzatziki, Yuvarlakia, Keftethes, Boureki ed altri ancora.

L'antichissima cucina greca era già arrivata ad un livello eccelso quando sulla nostra penisola si cuocevano poche pietanze e solamente alla brace. In Grecia, già a partire dal II secolo a.C., per diventare cuoco bisognava frequentare due anni di accademia e Timachida di Rodi (I-II secolo a.C.), letterato, poeta e studioso di arte culinaria legata al banchetto, scrisse undici volumi su "diverse sorte di banchetti". Il culto dei greci per Adefagèa, consacrata come dea della gastronomia, è la conferma di quanto fosse importante per questa grande civiltà l'argomento cucina. Quando i Romani occuparono la Grecia ne scoprirono anche le eccellenze gastronomiche e ne furono a tal punto conquistati da scatenare le vane proteste di Catone il Censore, che definì i Greci corruttori dei puri (più primitivi) costumi romani.

Così la cucina greca si trasfuse a Roma, le cui ricette divennero greche. E greca fu tutta la cucina dell'Impero bizantino che si ramificò in Italia ed in tutta Europa, tramite le repubbliche marinare prima e successivamente grazie alla fantasia gastronomica di italiani e francesi. Il Principe Arnaldo Zamperetti da Cornedo (XI-XII secolo), medico, storico, viaggiatore, mecenate, trovandosi a Rodi in missione diplomatica come ambasciatore della Serenissima Repubblica di Venezia, tradusse gli scritti di Timachida, trovati in una ricca biblioteca dell'epoca e, rientrato in territorio veneto, ne diffuse il contenuto, influenzando la cucina veneta con ricette greche ancora oggi invariate. Si può pertanto affermare che tutte le cucine europee, attraverso italiani e francesi, furono influenzate dalla cucina greca.

La cucina greca è semplice ma complicata al tempo stesso. La cucina greca è una tipica cucina mediterranea che utilizza olio d’oliva, carne, pesce e svariate verdure. In Grecia non hanno l’abitudine di servire il primo piatto . Il pasto si apre dunque con una serie di antipasti mezedes a cui segue un piatto principale che può essere a base di carne o pesce, spesso cucinati alla griglia o alla piastra, oppure un’insalata e dei formaggi. Uno degli antipasti greci, tanto gustoso più famosi e gustosi è il Saganaki, una fetta di formaggio di capra a pasta compatta che si frigge in olio bollente e si condisce con ouzo e succo di limone. Tra le ricette greche a base di carne troviamo il Souvláki, degli spiedini di carne cotti ai ferri e infilzati successivamente e il Gyros o una sorta di Kebab che viene servito come Píta Gýros, cioè carne condita con Tzatzíki, pomodoro, cipolla e patate, arrotolata all’interno di una Píta, cioè una sorta di piadina rotonda. Tra i piatti al forno il più famoso è senz’altro la Moussaka, una sorta di parmigiana di melanzane nostrana fatta con melanzane, patate, ragù e besciamella.Tra le insalate la più famosa è senza dubbia la Khoriátiki Salàda, l’insalata alla Greca, con fette di cetriolo, pomodoro e condita con olio extravergine, origano, olive, cipolle a rondelle, e pezzetti di formaggio Feta. La cucina greca è inoltre nota per l’utilizzo di yogurt e formaggi. Tra i formaggi il più noto è la Feta, formaggio fatto di latte di capra, a pasta granulosa e di gusto leggermente asprigno.



Gli yogurt invece vengono serviti per accompagnare i piatti o utilizzato per preparare salse come il noto tzatziki, una salsa di yogurt fatta con l’aggiunta di cetriolo, aglio e olio d’oliva.Tipici della cucina greca sono le ricette di dolci a base di pasta sfoglia ripieni di mandorle tritate e miele come il Baklavás noto dolce anche in Turchia.Tra le bevande, la più diffusa è l’ouzo, un liquore a base di anice.

Tra le portate più diffuse nella cucina greca troviamo gli antipasti, normalmente a base di ingredienti semplici, come olive nere, sottaceti, acciughe, ma anche polpettine di carne e involtini di riso avvolte da foglie di vite. Tra i simboli della tradizione culinaria greca c’è sicuramente la celebre pita, il pane tradizionale, sempre presente sulla tavola e usato soprattutto per servire i piatti principali a base di carne o verdure. Fra le ricette greche più rinomate troviamo la moussaka, un pasticcio a base di carne tritata e melanzane, arricchito con besciamella e formaggio, i souvlaki, i tipici spiedini di carne speziata, l’insalata greca, a base di pomodori, olive e cetrioli, molto diffusa soprattutto nel periodo estivo, lo tzatziki, una salsa preparata con yogurt cremoso, cetrioli e aglio, il tipico gyros, ovvero il kebab allo spiedo, e per concludere i baklava, un dolce molto diffuso nel mondo, formato da numerosi strati di croccante pasta fillo farciti con miele e frutta secca. Senza dimenticare il famoso yogurt cremoso, servito sia come dessert insieme a frutta secca e miele, sia come base di numerose salse.


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sabato 20 agosto 2016

LA RATATOUILLE



La ratatouille è un contorno a base di verdure tipico della cucina provenzale diffuso in gran parte della Francia e in particolar modo nella città di Nizza dove viene chiamata appunto "ratatouille niçoise"; il suo nome onomatopeico rievoca il gesto di rimestare le verdure che deriva dal francese "touiller" e dall’occitano "ratatolha". É composta da verdure fresche tagliate a cubetti di uguale dimensione e stufate insieme rispettando il giusto ordine di inserimento in pentola per non rischiare di cuocerle eccessivamente. In genere si prepara in estate quando le verdure sono più abbondanti e saporite e può essere aromatizzata con del timo, del basilico o altre erbe aromatiche a piacere. Servita come contorno con un accompagnamento di riso bollito, patate o anche semplicemente sul pane, è spesso arricchita con della cipolla tagliata a velo. Questa preparazione può essere paragonata per gusto e consistenza alla nostra peperonata o alla caponata siciliana.

Un contorno vitaminico e colorato, da accompagnare a piatti di carne o pesce.

La ricetta originale era di un piatto povero, preparato dai contadini, in estate. Non prevedeva nemmeno le melanzane, che invece ora vengono inserite, perché nel periodo estivo erano meno reperibili.



Ingredienti

2 zucchine

2 pomodori

1 peperone

1 melanzana

1 spicchio d'aglio

mezza cipolla

erbe aromatiche

olio extravergine d'oliva

Lava tutte le verdure, elimina i semini del peperone e taglia tutti gli ingredienti a cubetti.

Affetta la cipolla e mettila a soffriggere insieme allo spicchio d'aglio e all'olio extravergine d'oliva in una casseruola. Quando la cipolla è appassita, aggiungi peperone, melanzana e zucchina e lascia cuocere con il coperchio a fiamma media.

Quando le verdure sono quasi a fine cottura aggiungi i pomodori a cubetti, regola di sale e, se le ami, aggiungi delle erbe provenzali o del semplice basilico.

Se sei un'amante dei pomodori, soprattutto nel periodo estivo, quello migliore per stagionalità, sfruttali in tante preparazioni diverse.

La ratatouille francese può essere servita come piatto a sé stante (accompagnata da riso, patate, o semplice pane francese). Più frequentemente viene servita come contorno.


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ALJOTTA



La zuppa Aljotta è uno dei piatti importati dai Cavalieri di Malta, che principalmente furono estimatori della cucina francese, italiana e spagnola. Si tratta di un brodo di pesce con tanto aglio, erbe e pomodori, come si possono assaggiare in tante località della riviera Mediterranea.

L’Aljotta, ricetta tradizionale Maltese, è una squisita zuppa di pesce. Per preparare questa ricetta vengono utilizzati parti di pesce o piccoli pesci che generalmente non potrebbero essere mangiati perché troppo piccoli. Spesso vengono usati piccoli pesci come lo scorfano, il “Burqux” ( pesce marino di fondo molto colorato), i “Vopi” (piccolo pesce di fondo), oppure un pesce tipico Maltese come il “Lampuka”. Generalmente il pesce viene chiuso in un retino così da non far disperdere nella zuppa la pelle e le ossa del pesce. “L’Aljotta” poi può essere arricchita a piacimento con spezie, aglio, pomodori, erbe riso e peperoncino.



Preparazione: Scaldate l’olio a fuoco medio in una padella di grande altezza. Aggiungete le cipolle e fate cuocere fino a quando la cipolla si ammorbidisce. Aggiungete l’aglio, fate soffriggere per 30 secondi, quindi aggiungete i pomodori, il concentrato di pomodoro, la menta, la maggiorana e cuocere a fuoco basso per circa 8 minuti. Aggiungete il brodo di pesce,la rete di pesce e il pepe nero. Se volete potete anche aggiungere un bicchiere di vino bianco o seconda del gusto. Lasciate cuocere per circa 15 minuti. Mettere il riso e cuocere per circa 15-20 minuti o fino a quando il riso è cotto. Togliete la rete dall’interno della padella, togliete la carne buona e mettete in pentola. Servite caldo e Spruzzare con succo di limone, se lo si desidera.




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domenica 7 agosto 2016

I SEMI DELL'ANGURIA



I semi dell'anguria sono molto ricchi di fibre e antiossidanti. Un etto di piccoli semi ne ha circa 35 grammi di proteine (più della stessa quantità di carne). Un apporto, quello proteico, che consente addirittura di ridurre l'impatto glicemico del frutto stesso e mangiarne così un po' di più anche a fine pasto.

I semini sono inoltre ricchi di grassi poli-insaturi, utili per tenere a bada il colesterolo, il rischio cardiovascolare e l'iperattivazione del sistema immunitario. Ciò significa che potrebbero tornare utili per coloro che soffrono di allergie, asma o di autoimmunità.

I semi di anguria sono pieni anche di vitamine del gruppo B, che fanno bene al fegato, e di zinco, magnesio, manganese, fosforo, potassio, rame.

Contenendo ferro, inoltre, questo è facilmente assorbito se i semini vengono mangiati insieme alla polpa che, avendo a sua volta una buona quota di vitamina C, consentirà una rapida assimilazione proprio del ferro (se assunto con l'acido ascorbico, infatti, il ferro si assorbe rapidamente).

Se proprio non riuscite nemmeno a deglutirli ma non volete fare a meno di godere di tutte le loro proprietà, potreste tenerli da parte e lasciarli seccare, per poi sgranocchiarli proprio come tutti gli altri semi oppure cercare un estratto di semi di anguria.



Diffusa tra le popolazioni asiatiche la tradizione di essiccare i semi di anguria e sbriciolarli per fare zuppe o infusi.

Alcuni ritengono anche che possano apportare benefici in caso di parassiti o vermi intestinali. Inoltre i semi masticati hanno effetto lassativo e una piccola quantità può apportare benefici all’apparato digerente. Bisogna tener presente però, che è bene non esagerare: sembra infatti che ingurgitare una grossa quantità di semi di anguria, soprattutto se masticati, possa causare appendicite, stipsi e diarrea mentre se lasciati interi transiteranno senza problemi nell’intestino (sempre a patto di non esagerare!).

L'estratto di semi d'anguria si è peraltro rivelato avere un'efficacia non troppo lontana dai classici farmaci antiulcera, in uno studio condotto su topini stressati.

Come se ciò non bastasse, le potenziali future anguriette (i semi) contengono una buona quantità di vitamine del gruppo B, che fanno bene al fegato, e un mucchio di altri minerali.

I semi sono pieni di zinco, magnesio, manganese, fosforo, potassio, rame. Praticamente si tratta di piccoli integratori nascosti, perfetti per sopportare il caldo ed evitare di ammalarsi con l'aria condizionata: oltre a lavorare sul sistema immunitario e sul potenziamento delle difese antiossidanti, alcuni dei minerali citati mantengono modulata la pressione arteriosa e reintegrano ciò che viene perso col sudore.

Il caso del ferro è interessante: l'anguria contiene una buona quota di vitamina C, così che qualora i semi vengano mangiati insieme alla polpa, il suo assorbimento sarà facilitato (il ferro si assorbe meglio quando è assunto insieme a dell'acido ascorbico).



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