La primitiva forma di cucina fu la semplice cottura del cibo, praticata fin dai tempi dell'uomo di Neanderthal, già mezzo milione di anni fa: essa poteva rendere commestibili numerosi alimenti altrimenti indigeribili accrescendone il valore nutritivo (anche se di questo, quasi certamente, l'uomo neandertaliano non era consapevole).
Dapprima, quindi, si arrostì la carne sulla fiamma viva, poi sulla brace (che garantiva una cottura più uniforme e una minore perdita di peso degli alimenti), infine si scoprì la cottura in buche, dove la carne e le radici, avvolte in foglie, subivano una specie di cottura a vapore.
I cibi lessati in pietre concave, grosse conchiglie e stomaci di animali sono molto più recenti; i recipienti di ceramica furono introdotti non prima del VI millennio a.C. Le polente di cereali tostati e macinati grossolanamente, il pane non lievitato e i primi stufati di cereali e carne risalgono al Neolitico inferiore.
Nel corso di questa età si scoprì anche il fenomeno della fermentazione, che permetterà sia la produzione di pane lievitato (originario dell'Egitto) che quella delle bevande alcoliche (la birra, originaria della Mesopotamia, il vino e l'idromele).
L'arte del cuoco sta proprio nel contraffare e nel travestire gli alimenti: nel «cavare un pesce da una vulva, un piccione da un pezzo di lardo, una tortora da un prosciutto e una gallina da un culatello» come scrive Petronio Arbitro nel Satyricon.
Tra la cucina medievale e quella romana, grazie anche alla mediazione di Bisanzio, erede gastronomica di Roma, le affinità appaiono più forti delle differenze. Queste ultime dipesero soprattutto da un impoverimento delle tecniche di cottura: la cottura al forno e quella a fuoco moderato furono abbandonate; sopravvisse la cottura sulla fiamma viva: allo spiedo o in marmitta.
La dieta e la cucina delle élite, sia a nord che a sud delle Alpi, furono prevalentemente ed elettivamente carnee. Non si abbandonò l'uso di lessare le carni prima di arrostirle e di subissare i cibi di spezie orientali, erbe odorose, miele, garum (importato verosimilmente da Bisanzio) e altre salse.
Alla fine del XIII secolo la cucina raggiunse il livello tecnico dell'età romana, riscoprendo la cottura al forno (in genere quello da pane) e gli umidi. Gli anonimi ricettari trecenteschi italiani e quelli francesi coevi (primo fra tutti il Viandier di Taillevent) documentano una cucina che, pur non rinunciando al primato delle carni, alle cotture multiple, al gusto dolce-salato e dolce-forte e alle miscele di erbe e spezie, valorizzò le verdure, accolse preparazioni di probabile origine popolare (minestre, torte senza sfoglia, frittelle, eccetera), fece uso di salse non ingombranti e, più in generale, optò per una relativa linearità e sobrietà.
Gli ambienti umanistici sposeranno questa tendenza e la sosterranno con motivazioni dietetiche, mediche ed etiche.
In età rinascimentale si tornò a una cucina radicalmente artificiosa e dissimulatoria, consacrata all'occultamento programmatico dei sapori naturali. Assoggettati (se carni) a frollature interminabili e a cotture ripetute, intrisi di agresto e acqua di rose, rimpinzati di spezie, zuccherati senza risparmio, ricoperti di salse complicate e invadenti, sottoposti, infine, a complicate operazioni di chirurgia plastica (le «montature»), tutti i cibi finirono per assomigliarsi; tutti furono ricondotti a viva forza a un modello unico: a una sorta di idea platonica.
Avviata nella Francia dell'epoca dei Lumi nei primi decenni del Settecento e fiancheggiata da un vivace dibattito scientifico e filosofico, la riforma della cucina produsse, nel giro di un cinquantennio scarso, l'estinzione della civiltà gastronomica dell'antico regime e la nascita della cuisine moderne (o nouvelle cuisine, o cucina borghese). Ciò che si verificò fu un mutamento radicale non tanto della dieta e delle tecniche di cottura, quanto più propriamente del gusto: la cucina delle carni, delle spezie, dei sapori forti, ibridi e artificiosi fu spazzata via da una cucina che scoprì gli alimenti freschi;"...la zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, quella di cipolla deve sapere di cipolla..." le verdure, le erbe aromatiche, i confini netti dei sapori, le salse delicate.
Cambiò, conseguentemente, anche la struttura del pranzo: il «servizio alla francese», erede dei servizi rinascimentali, che prevedeva la presentazione di tutti piatti contemporaneamente, fu soppiantato dal «servizio alla russa», in cui i piatti vengono portati uno dopo l'altro, secondo un preciso ordine gerarchico.
Nella prima metà del Novecento, quando le abitazioni erano ubicate quasi esclusivamente nei centri storici, mentre attorno c’erano i prati e i campi coltivati, non si aveva certamente l’abitudine di andare al fast food.
I cibi erano piuttosto ripetitivi, molto semplici, ma genuini: ci si riempiva con pane giallo e polenta.
A colazione chi aveva la mucca prendeva una tazza di latte con un po’ di caffè. Molti mangiavano la minestra riscaldata, oppure la zuppa fatta con “pane giallo”, acqua calda e un po’ di burro.
A pranzo si cucinava spesso la minestra. Qualcuno ricorda la pastasciutta condita con un po’ di “fà bòm”, un sugo molto semplice e veloce. Si mangiavano “patati sguazzit e scigoll” (patate e cipolle), oppure verze, patate o fagioli in insalata.
Spesso c’era la polenta con le verze, con la “furmagina”, o con il “sancarlìn”.
Alla sera la cena era composta prevalentemente da minestra, riso e verze, riso e fagioli, oppure c’era la “panava”. Chi la minestra l’aveva già mangiata a mezzogiorno, consumava polenta e latte.
A volte si cenava anche con pane e uva, pane e fichi, pane e castagne.
La carne, per chi poteva, si consumava una volta alla settimana: si comperava qualche pezzetto di manzo, ma le parti più scadenti.
Alla domenica si cucinava anche la “curàva cui scigoll” (polmone con le cipolle), “pulénta e merlüzz” e “pulénta e saracc”: che festa!
Di uova se ne mangiavano poche perché le donne le vendevano per comprare il sale o il sapone.
Anche d’estate si accendeva il camino e la stufa a legna per cucinare poiché fino al 1950 circa nessuno possedeva il fornello, tanto meno la stufa a gas.
Il burro veniva fatto in casa con la “pinàgia”. Il liquido di scarto, residuo della fabbricazione del burro, non veniva buttato via, ma lo si consumava con inzuppato il “pane giallo”.
Generalmente il pane bianco, fatto di farina di frumento, si mangiava per Natale.
Nelle case l’attesa del Natale era veramente sentita, anche perché quel giorno ci sarebbe stato qualcosa di più, qualcosa di diverso sulla tavola.
Dopo la vigilia, giornata di “magro”, era tradizione cucinare la “rustiva da scigoll”, un piatto a base di cipolle e salsiccia. La “rustiva” alcuni la mangiavano la notte di Natale, altri la consumavano la mattina al rientro dalla Messa.
Il giorno di Natale si faceva il risotto, dato che in quell’occasione si ammazzava una gallina o il cappone per fare il brodo, che alla sera serviva per preparare la zuppa.
Il pranzo di Natale poteva essere anche a base di carne d’oca e di tacchino.
A Natale comparivano anche la mostarda e le arance: “POMM, NARÀNZ E NUS” erano i frutti di stagione che si regalavano ai bambini.
Solitamente la consumazione della frutta era legata ai prodotti stagionali: ciliegie, pere, mele, uva, fichi, noci, cachi.
Qualcuno sorride ancora ricordando i tempi in cui da bambino andava con altri coetanei a rubare ciliegie, magari all’imbrunire per non imbattersi nel proprietario degli alberi da frutta.
Il gran focolare della cucina era il centro della vita familiare. Di mattino presto (non ci si vedeva ancora) si toglieva le ceneri dal camino e si rinnovava la carica di legna che accendeva col “sufiatt”. Appendeva alla catena una pentola d’acqua e sistemava un pentolino di latte, su un piccolo treppiede, per la colazione degli uomini che si erano già alzati e avevano preparato le bestie. Le grosse fette di pane andavano a tuffarsi nelle enormi scodelle di caffè (matto) e latte. I mobili della cucina erano pochi, lo stretto indispensabile. Si usavano stipetti e vetrine a muro con una tenda per le suppellettili, mentre il pane (settimanale) si conservava nella “panareina” con la farina. I formaggi o gli insaccati avviati si tenevano dentro una gabbia di rete metallica a trama fitta per difenderli dai topi. Il resto sale, zucchero, olio era in vista su ripiani. Nelle famiglie numerose la dispensa (mobile o credenza a muro con serratura) era tenuta chiusa a chiave per ovvi motivi. In cantina si teneva il vino e tutto quello che si conservava fuori dai raggi solari: carne salata, burro e uova in calce per il periodo invernale. Padelle e pentole in rame erano appese sul lavatoio o al muro. Nella casa più arcaica il focolare era ancora al centro del locale e in questo caso la stanza n’era talmente annerita che solo in alcune ore centrali della giornata ci si vedeva. La cucina di regola andava imbiancata tutti gli anni, ma c’era anche chi la imbiancava direttamente di grigio, così si vedeva meno il fumo. Nelle case più ricche i camini erano delle vere e proprie officine con saliscendi ed altre diavolerie. Dal 1300 (data a cui si fa ascendere il camino moderno) questa fu la soluzione migliore, anche se scaldava l’ambiente solo nelle immediate vicinanze. Per scaldare le altre stanze chi se lo poteva permettere installava un camino in ogni stanza, altrimenti si usavano pericolosi bracieri che mangiavano l'ossigeno.
Quando il processo sinergico fra carbone e ferro, portò alla produzione di ghisa a buon prezzo, iniziarono a diffondersi le cucine dette “economiche” dai modelli più primitivi (1780) a quelle chiuse del 1840. Il combustibile ideale per queste cucine era il carbon coke o di legna che già da secoli si produceva per le fonderie. All’inizio le cucine economiche erano sistemate dentro l'ex camino. Con il calore instradato all’interno della stufa, si perfezionò anche una camera di cottura. Il forno in casa permetteva di cuocere autonomamente e senza disagi proprie pietanze (almeno alcune). Con i tubi di scarico della cucina economica si potevano raggiungere anche angoli dell’ambiente mai riscaldati fino ad allora. Molti ora potevano permettersi a piano terra un pavimento in cotto (mattone) più pratico ed igienico di quello in terra battuta. Le pentole, con la cucina economica d’ultima generazione, non erano più a contatto col fuoco e non annerivano. Si poteva regolare la fiamma per un minor consumo e/o migliore cottura. Nella serpentina di dispersione aveva trovato posto anche una piccola caldaia per l’acqua calda. L’acqua calda era un gran bel progresso, specie nelle mattine invernali quando per lavarsi bisognava spaccare il ghiaccio della brocca. Questo tipo di cucina economica, nonostante l’avvento del gas (1880), continuò a sopravvivere nelle campagne e in tutti quei luoghi che solo in seguito furono allacciati. Il Gas, detto di città, già regolarmente distribuito per l’illuminazione pubblica dal 1840 (era un sottoprodotto delle cokerie), poteva raggiungere anche le case private e i locali pubblici. Le stufe a gas erano più contenute, per ambienti divenuti più piccoli, e la produzione d’acqua calda e riscaldamento aveva preso già una strada separata. Cominciava a diffondersi nelle abitazioni collettive (condomini) della media e piccola borghesia il termosifone. L’abitazione collettiva era una nuova diavoleria del progresso, a volte era il padrone stesso della fabbrica a costruirla per metterci dentro i suoi dipendenti ex contadini. La metratura non era molta ma il vantaggio di stare in città non era poi indifferente. C’erano svaghi, scuole, ospedali ed altro. Del resto le città crescevano a dismisura, i centri storici, le nuove urbanizzazioni vedevano crescere in altezza anche bei palazzi signorili con altre finiture s’intende. Il faticoso lavoro dei campi, con i suoi pasti ipercalorici che seguivano le stagioni, continuava ad essere l’impiego lavorativo prevalente. Gli orari della giornata erano scanditi, dalla colazione del mattino, molto anticipata a seconda delle stagioni, poi da quella di metà mattina che corrisponderebbe ora a quella d’un impiegato. A mezzogiorno s'era di nuovo tutti a casa dove si consumava il pranzo o almeno si cercava di metterlo assieme. La cena della sera, arrivava molto presto prima dell’imbrunire e spesso era costituita da sola polenta.
Il progresso aveva portato concimi azotati, con maggiori rese e più beni a disposizione, ma col calo della mortalità infantile il numero dei contadini tendeva a crescere. Le diavolerie meccaniche e tecnologiche contribuiranno più avanti al sovrappiù e alla conseguente emigrazione. L’industria italiana a fine 800 non era in grado, per mancanza di capitali, di assorbire l’eccedenza che si liberava dalle campagne, specie nel sud. Il commercio (mercato libero) introduceva in Europa derrate a prezzi più bassi delle nostre. Arrivavano anche quei generi che per svariati motivi erano sempre stati fuori dal consumo abituale. Il caffè buono, i dadi per brodo, la cioccolata, la nostra frutta “esotica” del sud, etc... Le calorie medie che un lavoratore doveva ingerire per tenere un buon tono fisico erano dalle 3 alle 4.000 (oggi più che dimezzate) a cui mancavano sempre, per cronica carenza, le proteine animali dirette. La parte calorica era sostenuta da grassi animali (vedi maiale, lardo e strutto) o vegetali, pane e farinacei (quasi un kilo a testa a giorno) e zuccheri (miele-frutta). Le mucche erano allevate per il latte e la riproduzione e solo dopo anni finivano alla macellazione invariabilmente in lessi e stufati. Il vino non era per tutti, poiché solo il contadino e i signori potevano permettersi di tenere una cantina propria. Il vino oltre che bevanda era considerato cibo per le calorie, zuccheri, che apportava. Le qualità variavano moltissimo; dal comune giornaliero detto anche “Puntalone” a quello buono delle ricorrenze. La maggior parte d’operai e braccianti non avevano infatti la somma da anticipare per l’acquisto dell’annata e si limitavano alle piccole scorte in bottiglieria od osteria. Il giorno di paga, in città, le mogli si presentavano davanti al cancello di fabbrica, altrimenti il marito prima d’arrivare a casa s’era già bevuto tutto il salario !!!. Andando indietro nel tempo si può osservare che il menù era ripetitivo e prevalentemente costituito da zuppe di verdura e legumi in cui veniva “affogato” il pane, condimento poco, frutta di stagione, latticini (molto meno importanti e presenti d’adesso) e quando capitava, animali da cortile od altro a seconda delle zone geografiche e climatiche (es. mais in zone temperate, patate in zone fredde etc).
La pastasciutta, all’uovo o senza, è una conquista post unitaria anche se preesistente, in forme molto diverse dalle attuali, su gran parte dell’Italia. Le paste si dividevano genericamente in lasagne, tutte quelle spianate da cui poi le tagliatelle (al nord grano tenero) e quelle stirate poi al torchio (bucate) dette maccheroni, e spaghetti quando si assottigliano (grano duro al sud). La dieta mediterranea, oggi tanto celebrata e mitizzata, era a tutti gli effetti una dieta (tirare la cinghia). Tra la fine dell'800 e gli inizi del 900 la situazione alimentare di molta parte del nostro Paese era abbastanza critica al confronto con quella degli altri europei. Prima ancora di mangiare poco e male, quello che si guadagnava veniva speso quasi tutto per comprare alimentari di prima necessità. Nel 1880 gli italiani spendevano in media l'80% dello stipendio per il cibo. La componente principale dell'alimentazione, a quest’epoca, era la farina prevalentemente di granturco o di cereali inferiori, perché il frumento era riservato al consumo dei ceti urbani benestanti (pane bianco). Di farina di granturco era fatta la polenta, che certo saziava gli stomaci ma che, costituendo l'unica fonte di sostentamento, facilitava il diffondersi della pellagra, malattia come altre del monofagismo. Sempre a base di farina era il pane, che si produceva e consumava in forme e miscele diverse: miscela di segale, granturco e miglio era quello della pianura padana, con farina di frumento e crusca quello Toscano, con aggiunta di farina di ghiande quello dell'Appennino marchigiano, senza contare le farine di castagne. Al pane però si accompagnava sempre poco, troppo poco: qualche legume, fagioli, fave, verze e cavoli e qualche raro prodotto della pastorizia. Ancora sul finire del secolo era raro il consumo di patate considerato "…quel cibo maledetto che si nasconde nel ventre della terra" retaggio di superstizioni. Anche il consumo di riso era limitato alla pianura Padana con il contrappeso che la popolazione soffriva di scorbuto, causato da carenza di vitamina C: l’abbondanza d’acqua, necessaria alla pianta da riso, faceva marcire le radici d’ortaggi e frutta. Tra gli altri alimenti, rare erano pure le uova, destinate per la maggior parte al mercato. Passava l’omino delle uova (uvarol) che aveva tutte le volte il suo prezzo, prendere o lasciare. Poca era la carne, anzi pochissima dovremmo dire, destinata alle occasioni di festa o a sostenere il malato durante una lunga convalescenza. Proprio il consumo di carne, ambito, desiderato, immaginato per le sue virtù proteiche e nutritive, costituì il vero fattore di novità per gli emigranti italiani di fine Ottocento e inizio Novecento.
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