mercoledì 25 maggio 2016

LE INTOSSICAZIONI ALIMENTARI



Un’intossicazione alimentare può verificarsi dopo aver mangiato cibi contaminati con virus, batteri o agenti chimici.

Un tipico esempio è costituito dalle tossinfezioni alimentari, che consistono in una sindrome tossica conseguente all’ingestione di alimenti, di per sé innocui, ma contaminati da germi o tossine microbiche: botulismo, salmonellosi, tossinfezione da germi vari (proteus, colibacillo, stafilococco, etc.). Gli alimenti più spesso in causa sono la carne, le uova, il latte e derivati, i pesci e altri alimenti non cotti o mal cotti.

La tossinfezione ha in genere l’aspetto di una gastroenterite  emorragica, accompagnata da ipotensione, prostrazione generale, febbre, vomito, diarrea e soprattutto disturbi nervosi. La cura elettiva consiste nel riposo, nella somministrazione di antibiotici, eventualmente fleboclisi per reidratare il paziente e analettici cardiocircolatori; la dieta deve essere leggera e prevalentemente liquida.

Le tossinfezioni alimentari si verificano quasi sempre in soggetti che si nutrono in contesti collettivi (mense, ristoranti ecc.).

Talvolta l’infezione è dovuta ad alimenti contaminati dall’enterotossina (tossina che agisce sull’intestino) di uno stafilococco, quasi sempre a partire da una lesione cutanea della mano (giradito) di chi cucina.
Alcuni tipi di alghe provocano l’accumulo di tossine nel fegato dei frutti di mare, rendendoli tossici e inadatti, per un certo periodo, alla consumazione (è il caso della mitilosina nelle cozze).



I sintomi di un’infezione da germi del genere Salmonella o Shigella, che insorgono circa 18 ore dopo l’ingestione, consistono in febbre, vomito, dolori addominali, diarrea e affaticamento. L’evoluzione è quasi sempre rapida e benigna e il malessere scompare spontaneamente.
In caso di intossicazione stafilococcica, i disturbi digestivi compaiono 1-2 ore dopo l’ingestione e non sono accompagnati da febbre.

La prevenzione si basa sul controllo della filiera di produzione delle uova, sul rispetto delle norme igieniche, delle condizioni di preparazione, conservazione e distribuzione degli alimenti e sul loro controllo. Alle persone che soffrono di giradito è sconsigliato cucinare. Si parla di tossinfezioni alimentari collettive dopo che si sono verificati almeno due casi di infezione dovuti a uno stesso alimento.

Lavatevi sempre le mani prima di preparare qualunque cibo; lavate gli strumenti da cucina con acqua calda e detersivo dopo averli usati per preparare qualunque tipo di carne o pesce. Non scongelate la carne a temperatura ambiente. Lasciate che la carne si scongeli lentamente in frigorifero o scongelatela rapidamente in un forno a microonde e cucinatela subito. Evitate i cibi crudi marinati, la carne, il pesce o le uova crude; cucinate sempre questi cibi.

Non mangiate alcun cibo che abbia un odore o un aspetto avariato o cibi da contenitori rotti o da barattoli con coperchio estroflesso. Regolate il vostro frigorifero a + 4°C; non mangiate mai carne già cucinata o latticini che sono stati mantenuti al di fuori del frigorifero per più di due ore.



Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

giovedì 19 maggio 2016

LA CUCINA FILIPPINA



Genti di stirpe mongola colonizzarono l’arcipelago circa 15 mila anni fa e cominciarono le coltivazioni di riso, il loro principale alimento. Poi vennero gli spagnoli, che portarono piatti come la caldereta, le empanadas e i tamales per arricchire la dieta molto basilare delle popolazioni locali. I britannici fecero una fugace apparizione nella seconda metà del Settecento, ma non lasciarono tracce “golose”. Infine gli Americani, che si stabilirono qui alla fine dell’Ottocento e rimasero fino alla Seconda Guerra Mondiale, lasciarono un “tatuaggio” culturale più evidente: qui quasi tutti parlano inglese (con accento yankee), e non sono affatto rari i fast food.

Ma a livello gastronomico, ben più interessante e profonda è stata l’influenza cinese, vista anche la cospicua immigrazione da quel Paese. La gastronomia pinoy (termine col quale i filippini definiscono colloquialmente se stessi) può contare su un gran numero di ingredienti freschissimi (pesce, frutti di mare, riso, cocco, frutta esotica, usata anche in preparazioni salate) e anche di metodi di cottura mutuati dai diversi Paesi dell’area, che si fondono e si integrano per dare emozioni inconsuete al palato. Le salse all’aglio e pomodoro provengono dalla Spagna, i curry e l’uso del latte di cocco dalla Malesia, la salsa di soia, gli agrodolci e le combinazioni a base di zenzero sono invece proprie della cucina cinese. La paella è una delle pietanze più diffuse, come tanti altri piatti a base di arroz (riso), come l’arroz valenciana (un’altra paella di pesce) e il bringhe (un piatto di riso colloso con latte di cocco). La salsa di soya è onnipresente in cucina e qui serve a condire soprattutto le carni. La preparazione più popolare ovunque è però l’adobo, uno stufato di maiale con aglio, salsa di soia, foglie di alloro e aceto (ogni provincia delle Filippine ha il suo tipo peculiare) per creare un intingolo agrodolce che si cucina però con metodo spagnolo.

Dalla Madrepatria sono arrivati anche i chorizos, le salsicce alla paprika. Il pesce freschissimo (dai gamberi alle cernie, dalle seppie ai granchi) è portato in tavola sotto forma di seviche (crudo e marinato nell’aceto), o kilawin, quando alla seviche si aggiunge abbondante chili affettato e crema di cocco. Esiste una variazione sui tagliolini cinesi detta pancit (addirittura vengono serviti in locali “dedicati”, le panciterias e conditi con un’infinita varietà di salse, dalle ostriche a una salsa di gamberi e uova di anatra). In ogni festa popolare non manca mai il lechon, maialino di latte stufato con foglie aromatiche. I dessert a base di riso e latte di cocco sono di derivazione malese, come il bibingka, una torta di riso cotta in un forno portatile di terracotta e insaporita da foglie di banana e clay. Si trova anche sottoforma di street food. L’halo-halo, però, è forse il dessert più famoso: si tratta di una coppa di vetro riempita con fagioli e ceci sottoconserva e dolcificati, polpa di cocco (macapuno), langka (jackfruit), riso, radice di igname, ghiaccio tritato, flan de leche (tipo budino di latte), banane dolcificate, latte. E per finire, una guarnizione di gelato.

I filippini mangiano (almeno) cinque volte al giorno e, a metà mattinata e a metà pomeriggio, fanno sempre merenda. Il breakfast (almusál) consiste in riso fritto con uova e pan de sal (dei panini dolci) mangiati caldi e caffè forte. Per il tanghalían (pranzo) o la hapúnan (cena) vengono serviti (tutti insieme, nello stesso momento) tanti piatti diversi: riso, zuppe, stufati, verdure soffritte, condimenti. Le pietanze vengono chiamate a seconda del metodo di cottura, piuttosto che riferendosi all’ingrediente principale: così, ad esempio, il kare kare è un curry leggero cucinato in una sublime e “setosa” salsa di arachidi. Per la merenda, i filippini che stanno fuori casa, in viaggio o al lavoro, hanno a disposizione un “eden” di street food.

Ovunque, nelle caotiche strade di Manila, come nei mercati dei villaggi più piccoli, si trovano bancarelle con ogni leccornia locale. Fra gli street food più popolari: banana cue (banane infilzate su uno stecco di legno, rotolate in zucchero di canna e poi fritte); betamax (cubetti di “sangue di pollo essiccato” e arrostito); kamote (una patata dolce pelata, passata nello zucchero di canna e poi fritta); chicharon (ciccioli). Poi le polpette di pesce o di calamari, messe su uno spiedino e poi condite con una salsa agrodolce ; gli isaw (intestini di pollo); le kwek-kwek (uova di quaglia bollite, intinte nel burro e poi fritte); le tokneneng (simili alle kwek-kwek ma preparate con uova di gallina).


La cucina filippina è un insieme armonico delle varie cucine cinesi, giapponesi, malesi,americane e spagnole. La base dell'alimentazione è il riso bollito seguito dalla frutta quale il mango, la papaia e la banana. La cottura della carne si effettua arrosto o nel latte di cocco. Naturalmente è una cucina molto legata alle attività ed alle risorse marittime: le grandi quantità di pesce che sono portate a riva, in bilancieri di legno, vengono cucinate in pentole di argilla. Nell'antichità il sopraggiungere di mercanti cinesi e di colonizzatori spagnoli su queste isole ha portato alla diffusione di nuove abitudini alimentari.
Gli "involtini primavera" e la pasta glutinata furono introdotti dai mercanti cinesi, mentre i colonizzatori spagnoli importarono le "empanadas" e lo "chorizo", una sorta di salsiccia piccante di maiale ed aglio. Nella cucina filippina si utilizza spesso la soia o il succo di agrumi per marinare i cibi, rendendoli così particolarmente agri.
Il dolce più tipico delle Filippine è l'halo halo, fatto con riso insaporito con caramelle, frutta e latte, mentre insieme alle bevande alcoliche vengono serviti i pulutan (stuzzichini). L'halo halo talvolta viene fatto con uno zucchero particolare che viene coltivato e usato proprio nelle Filippine, che si chiama Mascobado. Lo zucchero Mascobado è uno zucchero integrale estratto dalla canna, di colore scuro, che viene prodotto con un metodo semplice e artigianale, che gli permette di conservare tutti i suoi principali principi nutritivi. Quando si assaggia questo zucchero lo si può riconoscere perché in bocca lascia un retrogusto di liquirizia
La maggior parte della popolazione è di cultura cristiana, ma non si può trascurare la presenza di cultura islamica sull’isola di Mindanao, dalla quale provengono molti immigrati. Sopravvivono inoltre credenze ancestrali che, sia pure solo per “tradizione”, sono ancora rispettate.
Tra queste, ad esempio, il non nutrirsi di quelle parti dell’animale che nel soggetto che le assume presentano una patologia: non si mangia il fegato se si è affetti da un’epatopatia o il cervello se si soffre di emicrania. Così pure vengono spesso evitati quei cibi (in genere di origine vegetale) il cui “comportamento” è simile a quello della malattia da cui si è affetti: ad esempio piante rampicanti se si hanno patologie cutanee che si “diffondono” sulla pelle. In modo particolare, per ciò che riguarda i bambini si ritiene che questi non debbano mangiare i frutti di vari tipi di palma qualora soffrano di convulsioni (lamen) perché le fronde delle palme oscillano e “tremano” al vento. Per il pericolo di cadere a testa in giù o sottosopra sono pure proibiti i pipistrelli e le tartarughe. Numerosi sono i tabù alimentari relativi alla gravidanza, molti dei quali tendono a porre una corrispondenza tra umanità e animalità, oppure tra la vita dell’animale e i possibili danni alla madre: mangiando un determinato animale il bambino ne assumerà i comportamenti, oppure, ingerendo il polipo, questo rischierebbe di trattenere il bambino all’interno dell’addome. Particolare attenzione viene posta all’allattamento e in modo particolare, agli alimenti che possono favorirlo. Tra questi ci sono le patate dolci e i frutti di mare univalvi. Particolarmente interessante sul piano culturale, è la proibizione di alcuni alimenti per semplice “assonanza linguistica” come ad esempio un tipo di fagiolo detto kadièsche ricorda il suono di adiòs (arrivederci) e quindi indurrebbe l’abbandono delle forze o una particolare zucca detta kalubay,che potrebbe indurre stanchezza (malubay).

La cucina presenta caratteristiche piuttosto acidognole: quasi tutto è cotto con aceto e spremute di agrumi. Una cucina poco conosciuta all’estero, che però si propone come crocevia gastronomico tra Asia e Spagna, con influenze dal Messico - la colonia di Madrid che per secoli è stata il ponte tra la madrepatria e le isole asiatiche - e dalla Cina. Certo, i novanta milioni di Filippini sono asiatici molto particolari in tutte le loro manifestazioni, non solo nell’arte culinaria.


Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

lunedì 16 maggio 2016

PANE CA'MEUSA



Il pani câ meusa, italianizzato come "pane con la milza", è un esempio di tradizione gastronomica palermitana nel campo del cosiddetto "cibo da strada".

La pronuncia corretta in palermitano sarebbe "pani c'a miévusa" con un allungamento della sillaba "ie".

Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una pagnotta morbida (vastella), superiormente spolverata di sesamo, che viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, soffritti a lungo nella sugna. Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso il panino si dice maritatu, ossia sposato, cioè accompagnato da qualcos'altro), con limone o pepe oppure semplice (schettu, ossia celibe, cioè solo).

Il meusaru si serve di un'attrezzatura tipica: una pentola inclinata, all'interno della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di milza e polmone che devono essere fritte solo al momento della vendita. Una forchetta con due denti serve per estrarre dall'olio le fettine fritte, che vanno scolate brevemente e inserite nella vastella, anch'essa calda, e per questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano all'avventore, in carta da pane o carta assorbente.

La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano in luoghi di mercato come la Vucciria o Ballarò. I più famosi sono l'Antica Focacceria San Francesco, che risale al 1834, il cui proprietario ha fatto della battaglia contro il pizzo una coraggiosa scelta di vita, denunciando i suoi estorsori mafiosi, L'Antica Focacceria di Porta Carbone, la famiglia Basile nel mercato della Vucciria, "Nni Franco u Vastiddaru" in corso Vittorio Emanuele (angolo piazza Marina), l'antico e caratteristico "Piddu Messina" nel corso Alberto Amedeo adiacente all'antico mercato del "Capo". Infine, più recente, Nino u ballerino in corso Finocchiaro Aprile (già corso Olivuzza).

A Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per strada anche il panino con panelle o crocchè (cazzille) o rascatura, la pizza-sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, il carcagnolo, la quarume, il polpo, l'aringa, e tutta una serie di pietanze da consumare in piedi: arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.

La comunità ebraica, presente Palermo fino al 1492, viveva all’interno di un proprio ghetto, ed era dedita a varie attività; alcuni erano abili nell’arte della macellazione ed esercitavano nei vari mattatoi della città.

L’allora macello cittadino delle carni era ubicato, e lì rimase sino al 1837, nella parte più bassa del Seralcadio, odierno Capo.

La macellazione e la vendita della carne avveniva attorno alla piazzetta detta dei caldumai, in pratica: venditori d’interiora.

I macellai non si facevano ricompensare in denaro, poiché la loro religione lo vietava. In cambio del lavoro di macellazione, a titolo di regalìa, trattenevano per sè le interiora dell’animale, escluso il fegato che era ritenuto molto pregiato.

Per ricavarne del denaro, inventarono una pietanza: dopo aver bollito, quindi sterilizzato le frattaglie, vendevano il prodotto ai "gentili" (cristiani) che lo mangiavano per strada e con le mani, (secondo una usanza trasmessa dai musulmani che mangiavano cibi senza l’uso di posate, riservando l’uso del coltello solo per il taglio e la frammentazione del cibo), unendo le frattaglie al pane e arricchendo il tutto con ricotta o formaggio.



U guastiddaru e/o u Cacciuttaru è colui che fa e vende “Guastedde“ con milza, polmone, ricotta e strutto.  Il nome  Guastella deriva dall’antico francone, il francese parlato dai normanni, “gastel”, che sta per panino rotondo o focaccia. Da quel termine venne il francese odierno “gateau”.

Quel morbido panino è passato alla storia gastronomica siciliana per la sua unione con questi straordinari ingredienti.

Non sappiamo chi fu, il personaggio a cui venne la geniale idea di creare con quelle un piatto per i cristiani che mettevano assieme la carne, ricotta, formaggio, strutto e grassi animali. Insomma quell’idea di mettere in mezzo a quella focaccina tutto ciò che era vietato a ebrei e musulmani ebbe un successo che dura ancora ai nostri giorni.

Fino ai primi del Novecento, questi “Guastiddari” erano in maggioranza ambulanti, portando sulla testa il fornellino e un cesto carico di focacce. Già, alla metà dell’Ottocento, nacquero alcuni locali dove si poteva gustare, oltre che “guastedde” anche “sfincioni” e tra questi vi è la storica Antica Focacceria San Francesco, aperta nel 1830 dagli Alajmo e che fu – e continua a essere – punto di ritrovo per molto personaggi illustri: da Garibaldi a Sciascia.

Il “Cacciottu” era un panino a forma di cappello basso di feltro allungato che in spagnolo si chiama “Cachuca” da cui l’etimo. Veniva chiamato anche “pani francisi” ed era parente stretto di un’altra specialità di pane scomparsa, chiamata “varvuzza”.

Questo panino si apriva da un lato per introdurvi caciocavallo e qualche pezzo di salsiccia secca “pasqualora”, poi si intingeva nello strutto bollente e infine, si riscaldava accanto al fuoco del fornellino portatile per pochi secondi in modo che il formaggio si trasformasse in crosta rendendo morbido e croccante il miserabile “cacciottu”. Era più economico della “Guastedda” e di solito era diffuso nei rioni più poveri e popolari della città come Kalsa, Albergheria e San Pietro. In quest’ultimo,infatti era proprio il piatto tipico delle festa dedicata all’apostolo Pietro che si svolgeva fino all’ultima guerra, nell’omonimo rione, del mandamento Castellamare, il 29 giugno, ma si consumava pure per il Festino.


Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

domenica 8 maggio 2016

LE BACCHETTE



Le bacchette sono state utilizzate per almeno 5000 anni. La loro derivazione risale probabilmente all'uso di rametti che , in antichità, venivano utilizzati per recuperare il cibo cotto in grosse pentole. Oltre alle bacchette i cinesi usano comunemente un piccolo cucchiaio in ceramica e preferiscono le ciotole ai piatti. Le forchette e i coltelli non sono utilizzati perché non appartengono alla cultura cinese. Fu Confucio stesso, che era vegetariano, a suggerire di non utilizzare coltelli a tavola perché, essendo strumenti pericolosi con cui si uccidono gli animali, rovinano l'armonia a tavola. Nella mentalità cinese il pasto è un momento molto importante e ogni elemento di disturbo deve essere bandito dal tavolo in cui si mangia.

Le bacchette sono storicamente realizzate in bambù, che è un legno molto resistente e flessibile, poco costoso, non ha odori né sapori, ha un'ottima resistenza al calore ed è molto diffuso e facile da lavorare. Talvolta si utilizzano altri tipi di legni come quello di cedro, sandalo, pino e taek, bacchette meno comuni sono realizzate in osso, giada, oro, bronzo, agata, corallo, avorio e argento. Queste storicamente erano prerogativa della classe ricca e soprattutto della famiglia imperiale. Era credenza comune che le bacchette di argento, se a contatto con veleni, assumessero un colore nero. Oggi sappiamo che questa credenza non corrisponde al vero e che veleni come l'arsenico e il cianuro non creano alcuna reazione chimica quando vengono in contatto con l'argento, ma è invece vero che uova non fresche, aglio e cipolle, a causa dei solfati che rilasciano, possono cambiarne leggermente il colore.

L’uso delle bacchette incide sul modo di cucinare: in Oriente, infatti, i piatti sono preparati con ingredienti tagliati piccoli, soprattutto la carne, e pulire il pesce dalle lische usando le bacchette è più comodo.

Ma il vero motivo per cui si usano le bacchette è relativo al fatto che i bocconi sono di solito caldissimi, poiché si estraggono dal brodo o dai condimenti, per disperdere il calore si girano qualche istante sulle bacchette e poi si mangiano a una temperatura accettabile.


Le bacchette per il cibo provengono dall'antica Cina: sulla loro origine sono fiorite numerose leggende, ma è provato che venivano utilizzate già ai tempi della dinastia Shang (1600-1100 a.C.). Utensili simili a bacchette sono stati dissotterrati anche nel sito archeologico di Megiddo in Israele. Questa scoperta potrebbe rivelare l'esistenza di rapporti commerciali tra il Medio Oriente e l'Asia nei primi tempi dell'antichità oppure potrebbe trattarsi di uno sviluppo parallelo avvenuto in modo indipendente. Le bacchette erano oggetti domestici comuni anche tra gli Uiguri civilizzati delle steppe mongole durante il VI-VIII secolo.

Le bacchette molto lunghe, solitamente circa 30 o 40 centimetri, tendono ad essere utilizzate per cucinare, specialmente per friggere a fondo i cibi. In Giappone sono chiamate saibashi. Le bacchette più corte sono usate generalmente come utensili per mangiare, ma anche per cucinare.
Le bacchette per prendere il cibo sono affusolate con l'estremità smussata o appuntita. Quelle smussate forniscono una superficie maggiore per trattenere il cibo e per spingere il riso nella bocca. Quelle appuntite consentono di manipolare più facilmente il cibo e di spinare il pesce cotto intero.
Le bacchette possono essere fatte di una varietà di materiali: bambù, plastica, legno, osso, metallo, giada e avorio.
Le bacchette di bambù e legno sono a buon mercato, conducono poco il calore e forniscono una buona presa per trattenere il cibo grazie alle loro superfici opache. Si possono incurvare e deteriorare con l'uso prolungato e se non vengono pulite adeguatamente possono annidare batteri. Quasi tutte le bacchette per cucinare e quelle usa e getta sono fatte o di bambù o di legno. Le bacchette usa e getta non laccate si usano in particolare nei ristoranti. Si presentano spesso come un pezzo di legno che è parzialmente tagliato e deve essere spezzato in due bacchette dall'utilizzatore.
Le bacchette di plastica sono a buon mercato e conducono poco il calore. Inoltre non annidano batteri né si deteriorano molto con l'uso prolungato. Tuttavia, a causa della loro composizione, non sono buone come quelle di legno e di bambù per prendere il cibo. Per la stessa ragione, le bacchette di plastica non possono essere impiegate per cucinare dal momento che le temperature elevate potrebbero danneggiarle e produrre composti tossici.
Le bacchette di metallo sono durevoli e facili da pulire. Come quelle di plastica, non trattengono il cibo bene quanto quelle di legno o di osso. Tendono anche ad essere più costose. La loro più elevata conduzione del calore, inoltre, significa che non sono comode da usare per cucinare.
Materiali come avorio, giada, oro e argento sono scelti tipicamente per ragioni di lusso.
Le bacchette di legno o di bambù possono essere dipinte o laccate per decorarle e renderle impermeabili all'acqua. Le bacchette di metallo a volte vengono irruvidite o rigate all'estremità affusolata per renderle meno scivolose quando si prende il cibo. Coppie di bacchette di metallo molto lunghe talvolta sono legate da una corta catena all'estremità non affusolata per impedirne la separazione.



Le bacchette cinesi sono bastoncini più lunghi che hanno la sezione trasversale quadrata ad un'estremità (quella con cui si tengono) e rotonda all'altra (quella con cui vengono a contatto con il cibo), terminando con una punta smussata.
Le bacchette giapponesi sono bastoncini di lunghezza da corta a media che si affusolano con un'estremità appuntita. Questa forma si potrebbe attribuire al fatto che la dieta giapponese consiste in grandi quantità di pesce con la lisca intera. Le bacchette giapponesi sono fatte tradizionalmente di legno laccato. Alcuni servizi comprendono bacchette di due lunghezze diverse: più corte per le donne e più lunghe per gli uomini. Sono inoltre assai diffuse bacchette a misura di bambino.
Le bacchette coreane sono asticciole affusolate di media lunghezza, in acciaio inossidabile, con una sezione trasversale piatta e rettangolare. (Tradizionalmente, erano fatte di ottone o di argento.) Molte bacchette coreane di metallo sono riccamente decorate all'impugnatura.
Le bacchette vietnamite sono lunghi bastoncini che si affusolano con una punta smussata; tradizionalmente di legno, ma fatte ora anche di plastica.
In Italia si usano bacchette simili a quelle giapponesi e sono fatte di legno laccato oppure di plastica; esistono anche quelle usa e getta. Nello scegliere tra i due tipi di bacchette è bene tener conto dei loro difetti: quelle di legno laccato possono essere portatrici di malattie, mentre quelle usa e getta hanno l'inconveniente di essere costose. Riprendendo il termine giapponese, le bacchette in Italia si chiamano Hashi.

Molte sono le regole di etichetta che governano il modo appropriato di usare le bacchette. Tenute fra il pollice e le dita di una mano, le bacchette si usano a mo' di pinza per prendere piccole quantità di cibo, che sono preparate e portate in tavola in porzioni piccole e adeguate. Le bacchette si possono utilizzare (tranne che in Corea) per spingere in bocca il riso e altri piccoli bocconi direttamente dalla ciotola.
Solo le estremità più piccole delle bacchette vengono a contatto con il cibi.
Le bacchette si tengono insieme nella stessa mano, solitamente la destra. Alcune persone, specialmente i mancini, hanno cominciato ad usare le bacchette anche con la mano sinistra. In alcune occasioni (formali), tuttavia, questo comportamento potrebbe essere considerato sconveniente.

Nelle culture che fanno uso delle bacchette, il cibo generalmente è preparato in piccole porzioni; tuttavia, alcuni modelli di bacchette hanno bordi intagliati intorno alle punte per aiutare ad afferrare porzioni di cibo più grandi. Il riso, che solitamente sarebbe quasi impossibile da mangiare con le bacchette se preparato utilizzando metodi occidentali, normalmente in Asia orientale è preparato con una minor quantità di acqua, il che lo porta ad "agglutinarsi", rendendo così più facile mangiare con le bacchette. Le caratteristiche collose del riso dipendono anche dalla cultivar selezionata; quella impiegata nei paesi est-asiatici di solito è la cultivar japonica, che è un tipo di riso naturalmente più agglutinante dell'indica, il riso utilizzato nella maggior parte dei paesi occidentali e sud-asiatici.

Oltre che come posate per mangiare, le bacchette sono utilizzate anche come utensili da cucina per mescolare gli ingredienti in una pentola o trasferire i cibi dalla pentola ai piatti.

Mettete una bacchetta tra il palmo e la base del pollice, usando il dito anulare (cioè il quarto dito a partire dal pollice) per sostenere la parte inferiore del bastoncino. Con il pollice, schiacciate il bastoncino verso il basso mentre il dito anulare lo spinge verso l'alto. La bacchetta dovrebbe essere fissa e molto stabile.
Usate le punte del pollice, dell'indice e del medio per tenere l'altra bacchetta come una penna. Assicuratevi che le punte dei due bastoncini siano allineate.
Ruotate la bacchetta superiore in alto e in basso verso la bacchetta inferiore fissa. Con questo movimento si possono prendere cibi di dimensioni sorprendenti.
Con sufficiente pratica, i due bastoncini funzionano come un paio di pinze.
Per maneggiarle più facilmente all'inizio, tenete le bacchette a metà come farebbe un bambino. Quando sarete divenuti più bravi, tenete le bacchette alle estremità superiori per arrivare più lontano ed avere un movimento più sicuro ed elegante.

Se le punte non riescono ad allinearsi, sarà difficile trattenere i cibi. Tenete le bacchette diritte con una delle punte che tocca leggermente il tavolo, e spingete le bacchette verso il basso o allentate la presa per un istante (sempre delicatamente) per far sì che le punte raggiungano la stessa lunghezza. In questo modo potete anche regolare la presa o la posizione di tenuta.

Nei vari paesi in cui si utilizzano le bacchette per mangiare, generalmente si osservano le seguenti regole:
Le bacchette non si usano per fare rumore, per attirare l'attenzione o per gesticolare. Giocare con la bacchette è considerato maleducato e volgare (proprio come sarebbe giocare con le posate in un ambiente occidentale).
Le bacchette non si usano per spostare ciotole o piatti.
Le bacchette non si usano per giocherellare con il cibo o con i piatti in comune.
Più spesso, le bacchette non si usano per infilzare il cibo, tranne poche eccezioni, ad esempio quando si fanno a pezzi cibi più grandi come verdure e kimchi. Nell'uso informale, cibi piccoli, difficili da prendere come pomodori ciliegia e polpette di pesce possono essere infilzati, ma quest'uso è biasimato dai tradizionalisti.
Le bacchette si possono appoggiare orizzontalmente sul proprio piatto o ciotola per tenerle completamente lontano dalla tavola. Per tenere le punte lontano dalla tavola si può utilizzare un poggiabacchette.
Le bacchette non si dovrebbero lasciare appoggiate verticalmente in una ciotola di riso o di altro cibo. Qualsiasi oggetto simile ad un bastoncino con la punta rivolta verso l'alto assomiglia, infatti, ai bastoncini d'incenso che alcuni popoli asiatici usano come offerte per i familiari defunti; non a caso, certi riti funerari indicano le offerte di cibo ai defunti usando bacchette messe in posizione eretta.

Nella cultura cinese, è normale sollevare la ciotola di riso alla bocca e usare le bacchette per spingere il riso direttamente in bocca. Se il riso però viene servito su un piatto, come è più comune in Occidente, è accettabile e più pratico mangiarlo con una forchetta, un cucchiaio o una forchetta-cucchiaio.
L'estremità smussata si usa a volte per trasferire il cibo da un piatto comune al piatto o alla scodella di un commensale.
È accettabile trasferire il cibo a persone strettamente imparentate (ad es. nonni, genitori, moglie, figli e altre figure importanti) se stanno avendo difficoltà a prenderlo. Inoltre è un segno di rispetto passare il cibo per primi ai più anziani prima che inizi il pasto.
Le bacchette non devono mai essere appoggiate sul piatto, ma sulla tovaglia o sugli appositi poggiabacchette. Lasciare le bacchette infilzate in una portata è un segno di ostilità verso il padrone di casa.

Il cibo non si dovrebbe trasferire dalle bacchette di qualcuno a quelle di qualcun altro. I Giapponesi offriranno sempre il loro piatto per trasferirlo direttamente, o passeranno il piatto della persona da servire se la distanza è grande. In Giappone, infatti, le bacchette si usano in questo modo solo durante la cerimonia del funerale buddhista: dopo aver cremato il defunto, la famiglia e gli amici spostano le ossa bruciate del morto dalla bara ad una pentola appunto con le bacchette.
Quando le bacchette non si usano, le estremità appuntite dovrebbero essere appoggiate su un poggiabacchette.
È abbastanza frequente rovesciare le bacchette ed usare l'estremità opposta pulita per spostare il cibo dal piatto comune, sebbene non sia considerato segno di buona educazione. Piuttosto, i commensali dovrebbero chiedere altre bacchette per trasferire il cibo dal piatto comune.
Le bacchette non si dovrebbero incrociare sulla tavola, né lasciare appoggiate verticalmente in una ciotola di riso, poiché questo simboleggia la morte.
In Giappone, si adoperano spesso bacchette monouso chiamate waribashi ("bacchette divise"), che sono unite tra loro e devono quindi essere spezzate in due per poter essere usate. In questi casi, è da maleducati sfregare insieme le bacchette dopo averle divise, perché questo gesto comunica all'ospite che si pensa siano a buon mercato.

I Coreani considerano segno di maleducazione sollevare la ciotola di riso dal tavolo per mangiare.
Diversamente da altre culture che fanno uso delle bacchette, i Coreani adoperano un cucchiaio per il riso e la zuppa, e le bacchette per la maggior parte degli altri cibi in tavola. (Tradizionalmente, i cucchiai coreani hanno una testa relativamente piatta, circolare, con un manico diritto, diversamente dai cucchiai da minestra cinesi o giapponesi.)
Diversamente dal riso consumato in molte parti della Cina, il riso cucinato in Corea può essere preso facilmente con le bacchette, sebbene mangiare riso con il cucchiaio sia più accettabile.
Quando si posano le bacchette sul tavolo accanto ad un cucchiaio, non bisogna mai metterle a sinistra di quest'ultimo. Le bacchette, infatti, si poggiano a sinistra solo per i membri defunti della famiglia.
Le estremità smussate del manico delle bacchette non si usano per trasferire il cibo dai piatti comuni.
Quando non sono disponibili bacchette comuni, è perfettamente accettabile prendere il banchan e mangiarlo senza prima metterlo giù sulla propria ciotola.
Inoltre, c'è un vecchio detto secondo cui più si tiene la mano vicina alle punte delle bacchette, più a lungo si rimane non sposati.

In Vietnam come nel caso dell'etichetta cinese, la ciotola di riso si solleva alla bocca ed il riso si spinge in bocca usando le bacchette.
Diversamente dai piatti cinesi, è pratico usare le bacchette anche per prendere il riso nei piatti, ad esempio il riso fritto, perché quello vietnamita è tipicamente colloso.
È corretto usare sempre due bacchette insieme, anche quando le si adopera per mescolare.
Non si dovrebbe prendere il cibo dalla tavola e porlo direttamente in bocca. Il cibo deve prima essere messo nella propria ciotola.
Non si dovrebbero tenere le bacchette in bocca mentre si sceglie il cibo.
Dopo mangiato, le bacchette non si dovrebbero mai poggiare sulla tavola formando una "V"; è interpretato come un segno di malaugurio.

Usare una sola volta un servizio di bacchette e poi gettarle via, causa problemi per l'ambiente. Sono sorti alcuni movimenti volti a spingere la gente ad utilizzare più volte lo stesso paio di bacchette. In Cina, si usano circa 45 miliardi di paia di bacchette usa e getta all'anno. Questo equivale ad 1,7 milioni di metri cubi di legname - circa 25 milioni di alberi adulti. La Cina è il più grosso produttore di bacchette usa e getta: basti pensare che quasi 60.000 persone sono impiegate in questo settore. Se la produzione continuerà al livello attuale, le foreste della Cina saranno esaurite nel giro di qualche decennio.

Per questa ragione, nell'aprile 2006 sulle bacchette monouso è stata introdotta un'imposta. Si parla anche di sostituire le bacchette usa e getta fatte di legno con quelle in plastica o metallo.

Nel 2003, fu fatto uno studio in base al quale l'uso regolare delle bacchette potrebbe aumentare lievemente il rischio di sviluppare l'artrosi nella mano, una condizione in cui la cartilagine si consuma, causando dolore alle articolazioni della mano, in particolare tra gli anziani. Sono stati inoltre avanzati timori circa il fatto che l'utilizzo di certi tipi di bacchette usa e getta, fatte di legno scuro sbiancato con candeggina, possa causare tosse o addirittura asma.

Un'indagine condotta nel 2006 dal Ministero della salute di Hong Kong rilevò che la proporzione di persone che si servono di bacchette o altri utensili per il cibo è aumentata dal 46% al 65% dopo lo scoppio della SARS nel 2003, determinando anche un miglioramento delle condizioni igieniche generali.




Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

venerdì 6 maggio 2016

CIBI SENZA GLUTINE



La dieta gluten free fa parte del fenomeno “health halo”, cioè la scelta di prodotti considerati salutari basandosi solo sulle apparenze. Così, come si comprano snack ricchi di sodio etichettati come “senza grassi” o cibi “light” ma dal grande apporto calorico, ci si orienta verso prodotti senza glutine credendo che possano avere un qualche effetto positivo sulla nostra salute. E le industrie se ne approfittano. Per evitare queste trappole psicologiche, bisogna imparare a leggere le tabelle nutrizionali.

Ma il glutine è solo l’ultimo degli alimenti da bandire per chi soffre di ortoressia, cioè il controllo compulsivo dell’alimentazione; molti temono che presto quasi ogni tipo di cibo verrà considerato “cattivo”. Sempre negli USA erano stati registrati casi di giovani che mascheravano la propria anoressia come celiachia.

La dieta senza glutine non solo è impegnativa e spesso inutile, ma anche costosa. Bisogna prima consultare un professionista per controllare i propri sintomi, se ci sono, prima di imbarcarsi in un regime alimentare complesso e che può rivelarsi controproducente e dannoso.

L’alimentazione “gluten free” è stata sdoganata ormai da anni ed è la più diffusa negli Stati Uniti. Viene elogiata da celebrità come Gwyneth Paltrow e Oprah Winfrey, diffusa attraverso centinaia di libri, alcuni anche per bambini (con titoli come “Freddy ha male al pancino”). In Italia iniziano a vedersi i primi segni di questa tendenza ed è solo questione di tempo prima che raggiunga lo stesso livello di popolarità.

Il glutine è una proteina presente nel grano, segale e nell' orzo; iniziare una dieta gluten-free significa eliminare tutti gli alimenti che contengono questi grani.

Nella maggior parte dei casi questo significa niente pane, niente pasta, cereali, biscotti, torte e molto altro ancora.

Molti specialisti sostengono che non ci sia nessuna correlazione fra un'alimentazione senza glutine e la perdita di peso, anche se evitare il glutine significa non assumere carboidrati e zuccheri; per questo motivo eliminare i cibi che contengono questa proteina, potrebbe significare anche perdere peso.
Gli esperti del settore spiegano che questo tipo di dieta offre un nuovo modo alle persone di controllare quello che mangiano, ed è quindi ottima per regolamentare calorie e carboidrati.

Attenzione, però, i cibi senza glutine non sono necessariamente dimagranti. Da qualche anno a questa parte, infatti, farmacie e supermercati offrono una grande varietà di alimenti per chi soffre di celiachia, e non tutti sono per forza adatti a perdere peso. Sostituire, ad esempio, snack pieni di zuccheri normali, con snack pieni di zuccheri per celiachi, non significa mangiare meglio.

Mangiare interamente senza glutine è molto più complicato di quanto possiate pensare. È infatti facile evitare gli alimenti come pane e pasta, ma il glutine può trovarsi anche nei bastoncini di pesce, nelle salsicce, nella salsa di soya, e in molti altri cibi. Per mangiare senza assumere glutine bisogna, quindi, controllare meticolosamente ogni volta le etichette alimentari di ciò che consumiamo.

I fan di questa dieta parlano di risultati strabilianti: cosce più sottili, pancia più sgonfia e un notevole aumento di energia. Bisogna ricordare, però, che un'alimentazione gluten-free è un rimedio medico, non una dieta vera e propria, ed è quindi impossibile dire quanto questa incida sulla perdita di peso, anzi, se sia utile davvero per rimanere in forma.

Tagliare delle calorie significa perdere velocemente peso, e evitare cibi pesanti che contengono glutine, ovviamente aiuta a diminuire l'assunzione di calorie, ma non è detto che oltre a questo ci siano altri fattori che incidono sul fisico.

Decidere di mangiare senza glutine significa optare per cibi freschi, e pasti bilanciati, che non inducono a sentire la fame.

Evitare il glutine è limitante in molte occasioni, soprattutto quando viaggiamo e andiamo a mangiare fuori.



Gli alimenti in natura privi di glutine sono molti: frutta, verdura, carne, pesce e uova, ma anche prodotti come pane, pizza, pasta, biscotti e torte realizzate a base di farine prive di glutine. Durante il processo di lavorazione dei prodotti si possono verificare casi di contaminazione da glutine.

Per questo motivo dal 2005 questi alimenti devono quindi essere contrassegnati con la spiga sbarrata. È importante quindi che i consumatori prestino attenzione al simbolo di assenza di glutine (la spiga di grano sbarrata). Esso offre alle persone che soffrono di intolleranza al glutine la certezza di consumare un prodotto sicuro. L’uso del sigillo è soggetto a severi regolamenti e può essere utilizzato solo per prodotti il cui contenuto di glutine è di massimo 20 milligrammi per chilogrammo; in caso di un contenuto maggiore non sono idonei.
I prodotti privi di glutine sono oggi disponibili nei negozi di prodotti dietetici, nelle farmacie, nei supermercati. L’assortimento è costituito da prodotti gustosi e di alta qualità, come pane, farina, pasta e biscotti fino ai piatti pronti.

Come per molte intolleranze alimentari il vero problema si presenta quando si è in viaggio o in generale fuori casa. Infatti, mentre a casa si hanno tutte le informazioni precise sugli ingredienti, al ristorante potrebbe capitare di non avere questa certezza.

Il glutine è una sostanza proteica naturalmente presente in diversi tipi di cereali, ma viene anche utilizzata dalle industrie alimentari come legante per tenere insieme gli ingredienti: lo si trova in prodotti insospettabili come sughi, zuppe pronte e cioccolato. Un italiano su 100 è celiaco, cioè ha un’infiammazione cronica dell’intestino tenue, causata dal glutine. Nell’organismo dei celiaci questa proteina scatenano una risposta autoimmune e la conseguenza è un danno alla mucosa intestinale, compromettendo l’assunzione di altri nutrienti. Si può presentare con una sintomatologia classica intestinale (con nausea, vomito, diarrea, stipsi e addome gonfio) o con una sintomatologia atipica extra intestinale, sempre più frequente (sintomi neurologici, dermatite erpetiforme, etc…). La celiachia può anche essere asintomatica, pur continuando a danneggiare l’organismo. L’unica terapia possibile è un’alimentazione completamente priva di glutine.
Il glutine si trova in diversi prodotti industriali, anche insospettabili
Esiste poi la sensibilità al glutine non celiaca (NCGS), una sorta di reazione avversa al glutine con manifestazioni molto più leggere della celiachia, di cui però non si hanno molte certezze. Non si hanno ancora degli strumenti per riconoscerla: in genere, la diagnosi avviene per esclusione della celiachia, basandosi su sintomi come mente annebbiata, nausea, problemi intestinali, dolori muscolari e stanchezza. La cura, anche in questo caso, è l’eliminazione del glutine, mentre possono essere tollerati gli alimenti con tracce di glutine o piccole quantità di questa proteina.

L’ADI, Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica, sostiene che negli ultimi anni si è verificato un incremento delle diagnosi della NCGS e della celiachia, fino a 5 volte soprattutto nei bambini, dovuto anche al miglioramento delle tecniche di accertamento per riconoscere questi disturbi. Le cause si identificano in un aumento del consumo di grano, a una modificazione della qualità del frumento e del glutine presenti nei prodotti e al sempre più frequente uso del glutine nelle industrie come additivo o come riempitivo.

La dieta senza glutine è dunque l’unica scelta possibile per chi soffre di questi disturbi ma presenta diversi lati negativi. Infatti se in teoria dovrebbe portare a un calo di peso, perché vengono eliminati alimenti ricchi di carboidrati come pane e pasta, in realtà per molte preparazioni sono introdotti oli e additivi per mantenere sofficità e fragranza, risultando alla fine più calorici. Diversi studi hanno dimostrato che i celiaci a dieta senza glutine da lungo tempo possono andare incontro a carenze di  micronutrienti, come le vitamine del gruppo B,  il ferro, il magnesio, l’acido folico e anche la fibra proprio perché maggiormente presenti negli alimenti che vanno esclusi. Chi elimina il glutine dalla propria tavola deve porre una particolare attenzione all’apporto nutritivo e dev’essere seguito da un professionista che indichi delle alternative adeguate. A lungo andare, una dieta priva di glutine può aumentare il rischio di patologie cardiovascolari, sindrome metabolica e osteoporosi.

Inoltre, non bisogna pensare che ogni prodotto gluten free sia sano e dietetico: una merendina senza glutine rimane pur sempre una merendina. È un errore in cui incorrono in molti, pensando che siano a prescindere prodotti più sani, finiscono per nutrirsi di cibo spazzatura o di alimenti fortemente industrializzati e quindi vanificare ogni proposito salutista. Un recente studio australiano ha analizzato più di 3.200 alimenti senza glutine di diverse categorie, da cibi base a junk food, concludendo che i valori nutrizionali e l’apporto calorico sono in media gli stessi di cibo tradizionale della stessa categoria. Infatti, sono quattro gli elementi che rendono appetibile il cibo industriale: zucchero, sale, grassi e glutine. Togliendone uno, è inevitabile che gli altri debbano aumentare per poter vendere il prodotto.

Tra le altre cose, i non celiaci che scelgono autonomamente di eliminare il glutine incorrono nel rischio di non poter più diagnosticare la celiachia, in caso esista veramente. Chi ha il dubbio dovrebbe prima consultare un dottore e poi considerare il tipo di alimentazione da seguire.

Un altro punto da non sottovalutare è il lato economico. “C’è un business enorme dietro al cibo gluten free – spiega Enzo Spisni, docente di Fisiologia della Nutrizione all’Università di Bologna – che dal mercato per celiaci, quindi relativamente ristretto, si è spostato al grande pubblico. Per questo gli alimenti senza glutine vengono pubblicizzati in televisione. Perché altrimenti investire tanti soldi per un prodotto di nicchia? È ovvio che si sta cercando di incoraggiare questa tendenza del gluten free. Ci si attacca alla possiblità della sensibilità al glutine, spesso diagnosticata con metodi fai-da-te, per vendere.” In tanti infatti si convincono di soffrire questo disturbo, magari leggendo in internet di quegli stessi sintomi generici e collegabili a tante altre cause. “La nostra è una tradizione di pasta, pane e pizza è forte, ma presto le industrie arriveranno a proporli senza glutine e così ci sarà il boom della popolarità. È un argomento caldo, e c’è confusione: in Italia, per esempio, è il Ministero della Sanità ad approvare gli alimenti senza glutine erogabili gratuitamente ai celiaci, e anche in questo settore la spesa sanitaria è aumentata tantissimo negli ultimi anni.” Insomma, l’argomento non è chiaro ai più e le industrie se ne approfittano. Negli Stati Uniti si era arrivati a etichettare come gluten free persino i cosmetici, anche se la sostanza, per causare danni, deve essere ingerita.



Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

GLI ANTIBIOTICI



L'allevamento intensivo è una pratica che si è diffusa nel XX secolo (in Italia soprattutto a partire dal secondo dopoguerra) allo scopo di soddisfare la crescente richiesta di prodotti di origine animale (in particolare carne, uova e latticini) abbattendone nel contempo i costi, in modo da rendere questa categoria di prodotti adatta al consumo di massa. Se la riduzione dei costi unitari e la possibilità di produrre su scala industriale erano inizialmente gli unici fattori a influire sulle modalità e le tecniche impiegate nell'allevamento intensivo, in seguito queste sono state sottoposte a un continuo processo di revisione in funzione di considerazioni come la tutela degli animali, l'igiene e la qualità dei prodotti, l'impatto ambientale e via dicendo. Di conseguenza, le caratteristiche dell'allevamento intensivo sono cambiate nell'arco del XX secolo, e possono presentare differenze anche notevoli fra diversi paesi. Importanti norme al riguardo sono state emanate dall'Unione europea a partire dagli anni novanta.

Negli allevamenti intensivi gli animali sono sottoposti a selezione individuale e sono perciò in grado di fornire elevate prestazioni produttive a cui corrispondono fabbisogni nutritivi in energia e proteine di maggior rilievo. I regimi dietetici e le razioni alimentari vedono perciò l'apporto di non trascurabili quantitativi di concentrati, i soli in grado di soddisfare tali fabbisogni in rapporto alla capacità di ingestione volontaria. La provenienza e la natura di tali concentrati è composita e varia notevolmente secondo il comparto produttivo, la fisiologia delle singole specie, il tipo produttivo della specie allevata e, infine, l'ordinamento produttivo dell'azienda. Oltre ai cereali e ai loro derivati, che rappresentano la base fondamentale dei concentrati, si fa largo ricorso ai sottoprodotti della trasformazione agroalimentare.

L'altissima concentrazione di animali negli allevamenti intensivi è la principale causa dell'insorgere periodico di svariate malattie rispetto a quanto accade nel caso di animali cresciuti in natura. In questi allevamenti l'uso di farmaci (per esempio antibiotici) è diffuso, sia per prevenire l'insorgere di epidemie, sia come stimolanti della crescita. Queste modalità d'uso degli antibiotici (basso dosaggio per lunghi periodi di tempo) può portare al diffondersi di nuove forme di batteri resistenti a tali medicinali. Il Center for Disease Control and Prevention statunitense stima che nel mondo, ogni anno, ci siano oltre 76 milioni di casi di malattie portate dal cibo da allevamento, e oltre 5000 morti.

In Italia, secondo i dati FAOSTAT, vengono allevati ogni anno 500 milioni di polli da carne. Circa l’80% viene allevato intensivamente, vale a dire in capannoni che possono contenere fino a 40.000 animali. Oggi la legge italiana, in linea con la normativa europea, consente di allevare a una densità massima di “33 chilogrammi di peso vivo a metro quadro”(15/16 polli per metro quadro), con la possibilità di richiedere deroghe per aumentare la densità fino a 39 o addirittura 42 chili per metro quadro (20/21 animali per metro quadro).  Per ottenere una deroga, che può essere consentita con la procedura del “silenzio assenso”, è sufficiente installare un buon sistema di ventilazione e monitorare alcuni parametri ambientali.

La alte densità degli allevamenti rendono i polli spesso immunodepressi.
Anche la selezione genetica influisce pesantemente sul benessere dei polli. La maggioranza dei polli da carne è costituita da razze selezionate per crescere rapidamente in maniera innaturale: un pollo può raggiungere il peso adatto alla macellazione anche in 39 giorni. Ma questi animali sono destinati fin dalla nascita a una vita di sofferenze. La crescita abnorme, soprattutto nella zona del petto, causa problemi cardiorespiratori, deambulatori, zoppìe e anche la morte.
A densità così alte e in condizioni fisiche intrinsecamente debilitate, i polli sono molto spesso immunodepressi e si ammalano con facilità. In un capannone con decine di migliaia di animali è sufficiente che uno solo sviluppi una malattia perché tutto il gruppo debba essere trattato, o perché già ammalato o perché con ogni probabilità si ammalerebbe a breve.



Sebbene la sospensione di trattamenti farmacologici prima della macellazione garantisca che nella carne non vi siano residui di antibiotici, va però ricordato che il pericolo in questo caso è la selezione di batteri resistenti agli antibiotici che possono diffondersi a partire dagli allevamenti, in primis attraverso gli operatori degli allevamenti stessi. L’allarme su questo argomento è stato lanciato recentemente dagli specialisti della Simit secondo cui “In Italia sono stimati 5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni nosocomiali (dovuti ad antibioticoresistenza), con un costo annuo superiore a 100 milioni di euro”. Riguardo al consumo di antibiotici, in Italia l’uso in campo veterinario è in calo negli ultimi anni, ma il consumo italiano resta fra i più alti in Europa e la percentuale di antibiotici venduti destinati agli animali da allevamento in Italia è allarmante: si tratta del 71% di quelli venduti secondo i dati del rapporto ECDC/ EFSA/ EMA  del 2015. Quello dell’uso eccessivo di antibiotici è solo uno degli effetti nefasti degli allevamenti intensivi che spingono gli animali al limite delle loro possibilità fisiologiche e provocano loro enormi sofferenze. Secondo la FAO,“ Sostenibilità significa assicurare i diritti e il benessere degli esseri umani senza esaurire o diminuire la capacità degli ecosistemi della terra di sostenere la vita, o a danno di altri esseri viventi”. Il problema vero non è l’uso di antibiotici in sé, ma l’allevamento intensivo, che minaccia la nostra salute, l’ambiente e la sostenibilità alimentare sul nostro pianeta.

L’entità dell’utilizzo di antibiotico nelle nostre produzioni animali è stato di gran lunga sottostimato, perché sconosciuto fino a pochissimi anni fa. Un recente studio della Princeton University ha puntato il dito contro la Germania come maggior utilizzatore in Europa, facendo riferimento a dati del 2010, quando ancora non erano disponibili dati comparabili per l’Italia. Secondo i dati aggregati dalle agenzie europee, invece, già nel 2012 eravamo di poco secondi a Germania e Spagna per utilizzo di antibiotici negli allevamenti, con 1534,3 tonnellate utilizzate annualmente, con il primato negativo assoluto per quanto riguarda l’utilizzo in relazione alla produzione: 341 mg di antibiotici utilizzati per ogni chilo di massa prodotta, contro Francia e Germania ferme rispettivamente a 99 mg e 205 mg, e una media europea di 140 mg. Meno della metà rispetto al nostro dato. Le vie di trasferimento – «A livello di allevamento le resistenze si possono generare sia in batteri che possono direttamente essere pericolosi per l’uomo, sia in batteri che possono trasferire ad altri batteri geni di resistenza», afferma Luca Busani, direttore del reparto di Epidemiologia veterinaria e valutazione del rischio dell’Istituto superiore di sanità. «Un batterio può andare più o meno direttamente da un allevamento ad una persona, sia per contatto diretto sia in maniera meno diretta, cioè attraverso gli alimenti. Quello che è nell’intestino degli animali può passare lungo la catena di macellazione, di manipolazione, di produzione, e quindi raggiungere l’uomo».


Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

giovedì 5 maggio 2016

I NOODLES




I noodles sono stati creati in Cina più di 4.000 anni fa e grazie a viaggi, migrazioni e commercio si sono poi diffusi anche in altre nazioni, come Corea, Tailandia, Filippine e, ovviamente, Giappone.
Si producono con un impasto di farina di qualunque tipo a cui si aggiunge acqua ed eventualmente uova e con cui si creano dei fili di pasta di spessore variabile a seconda delle tradizioni locali.
La differenza tra la nostra pasta e i noodles è che la pasta è fatta di farina di grano duro e viene trafilata, mentre i noodles non utilizzano farina di grano duro e vengono tagliati direttamente dalla sfoglia di pasta con poca umidità.

Prima che la dinastia Song (960-1279) incentivasse la coltivazione del frumento, le paste erano prodotte con farine di leguminose o di altri cereali, oppure fecole ricavate da radici o bulbi vari. Il termine mian fu introdotto per indicare prima la farina di frumento e poi anche la pasta da esso derivata. Il grano sarà quasi esclusivamente tenero, lasciando il duro alle coltivazioni di paesi più caldi, e resteranno in uso le farine già nominate consentendo un'ampia scelta di prodotti.

Al contrario dell'Italia, che conobbe una rapida industrializzazione, la produzione è rimasta prevalentemente familiare o artigianale: in maniera simile a quella della pizza tonda avviene sotto gli occhi del cliente con esibizione di estrema abilità. Nel caso degli spaghetti ad esempio, l'impasto viene tirato e ripiegato numerose volte senza mai tagliare, fin quando non diventi sottilissimo e lunghissimo.

I noodles possono essere anche all'uovo ed essiccati. Altre forme sono tipo fettuccine o ravioli i quali, come in Italia, hanno ripieni in linea con le tradizioni regionali, ma sono cotti a vapore.

Esistono dei ristoranti di quartiere specializzati in paste fresche fatte a mano senza tagliare chiamate la miàn cioè «paste tirate». I ristoranti di la miàn sono tenuti spesso da hui, cinesi musulmani originari dell'Ovest della Cina.

È molto difficile stabilire la nomenclatura delle forme cinesi a causa del grande numero loro e dei diversi dialetti cinesi. Ogni forma può essere scritta in pinyin e in cinese ma a Hong Kong e nel Guangdong avrà la pronuncia cantonese, mentre a Taiwan, in Malesia, a Singapore e oltremare si usa la hokkien.



Esistono varie tipologie di noodles e tantissime preparazioni a base carne e verdure. Esistono molte varietà di noodles, ma la maggior parte sono fatti con la farina, il riso, il grano saraceno o il fagiolo mungo tipico coreano. In altre zone si trovano anche di granoturco e alghe. Sintetizzando si possono dividere in tre grandi gruppi: i noodles giapponesi bianchi e salati, i noodles cantonesi di colore giallo ed i noodles istantanei. In commercio li si trova freschi o essiccati. I noodles di riso sono i più diffusi nelle regioni cinesi e nel sudet asiatico. I noodles di riso sono friabili, di colore pallido, quasi bianchi. Ne esistono di vari spessori, sono precotti ma necessitano comunque di cottura. I noodles di fagiolo mungo (coreano) sono conosciuti come spaghetti di soia o vermicelli di soia, sembrano noodles di riso, ma sono più consistenti, elastici. Si possono cucinare con pasticci, zuppe, involtini primavera. Vanno messi a mollo in acqua bollente prima di essere utilizzati. I noodles all'uovo sono usati comunemente in Cina e in Giappone. Ne esistono di diverse specie e sono disponibili sia freschi sia secchi. Prima questi noodles possono essere messi ammollo, ma è possibile seguire le istruzioni sulle confezioni. I noodles integrali sono di colore grigio-marrone hanno un gusto più marcato. I tempi di cottura dipendono dal loro spessore. Fare attenzione alla cottura. I noodles udon sono di tipo giapponese, freschi o secchi. Anche per la loro cottura, bisogna controllare le indicazioni sulla confezione. Risultano più buoni se messi in ammollo in anticipo. I noodles thailandesi sono più larghi dei classici noodles e più porosi. Questa particolarità permette a questi spaghettini di assorbire meglio il condimento.  I noodles istantanei si trovano sia al naturale che aromatizzati con diversi ingredienti. Accompagnati da un sacchetto separato contenente un preparato per la zuppa. I noodles in molte preparazioni vengono fritti anzichè solo lessati per poi essere conditi soprattutto con le verdure. La frittura rimuove l'acqua dai fili di pasta conferendo una struttura porosa che si reidrata facilmente e rapidamente con l'aggiunta d'acqua. I noodles si prestano a innumerevoli preparazioni e condimenti, verdure, carne e pesce. Solitamente vengono saltati nella tipica padella orientale: il wok che dona alla preparazione maggior croccantezza.

Sono decine le ricette che spiegano come si cucinano i noodles, mentre per quanto riguarda il come si mangiano i noodles, ci vogliono le tipiche bacchette e, per noi occidentali, tanta pazienza.


Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

IL MANGO



Il mango, è un albero appartenente alla famiglia delle Anacardiacee, originario dell'India e coltivato in tutte le zone tropicali.

La parola "mango" deriva dalla parola Tamil maangai e poi attraverso il Malayalam fino al portoghese manga. La prima attestazione della parola in una lingua europea si trova nel 1510 in un testo di Ludovico de Varthema in italiano come Manga.
È di origine indiana e fin da tempi remoti ha avuto una rilevante importanza: appare in molte leggende indiane e tutt'oggi viene considerato sacro agli Indù, e usato come ornamento per i loro templi.

Fu introdotto nel IV secolo a.C. nell'est asiatico e, a partire dal X secolo d.C., diffuso nell'Africa orientale. Il viaggiatore marocchino del quattordicesimo secolo Ibn Battuta lo riporta come presente a Mogadiscio. Nel Seicento i portoghesi lo esportarono in America del Sud. Oggi viene coltivato in quasi tutti i paesi tropicali e nei paesi subtropicali, nelle zone non soggette a gelo, come ad esempio in Spagna (Andalusia, principalmente nella provincia di Malaga).
Esistono delle coltivazioni di mango anche in Italia, a Caronia, a Fiumefreddo di Sicilia, a Balestrate - Provincia di Palermo, ad Alcamo, nella valle del Niceto ed in Calabria. La diffusione globale delle coltivazioni nell'area intertropicale fa sì che il frutto sia presente tutto l'anno sui mercati. La produzione siciliana, per quanto limitata nel tempo a causa della stagionalità della fruttificazione del mango in Italia, è risultata di qualità eccellente, ottenendo un grande successo anche sui mercati nel Nord Europa.

L'albero del mango è sempreverde, ramoso, alto fino a 35-40 metri e con una chioma di anche 10 metri di diametro. La corteccia è resinosa; il legno duro e ruvido, di color rosso. Le sue foglie sono alternate, semplici, lunghe 15-35 centimetri e larghe da 6 a 16. Quando sono giovani sono di colore variabile, arancio/rosa, che diviene rapidamente vinaccia per cambiare finalmente al verde quando sono mature. I fiori sono prodotti in pannocchie terminali lunghe 10-40 centimetri. Il colore del fiore è bianco rosato, con un odore che ricorda il mughetto. La fioritura è indotta da un prolungato (4-5 mesi) riposo della gemma terminale di ogni ramo. Tale riposo può avvenire indipendentemente per siccità, ridotta vigoria vegetativa o basse temperature. Se tale riposo non avviene all'apertura la gemma presenterà uno sviluppo vegetativo e non floreale. Pochissimi dei fiori sviluppano il frutto, che presenta anche una cascola elevata. Il frutto richiede da tre a sei mesi per maturare, a seconda delle cultivar.

Alcune cultivar di scarsa vigoria vegetativa vengono commercializzate come piante ornamentali da vaso, pur mantenendo la capacità di produrre frutti di buone qualità organolettiche.

I mango rappresentano circa la metà della produzione complessiva mondiale di frutta tropicale. Le 10 nazioni con la maggiore produzione coprono l'80% della produzione mondiale. Le cultivar Alphonso, Benishaan o Benisha (Banganapalli in Telugu e Tamil) e Kesar sono considerate tra le varietà migliori negli stati indiani del sud, mentre Dussehri e Langda sono le più popolari negli Stati del nord.
Generalmente i mango maturi hanno una buccia giallo-arancione e sono succosi al momento del consumo, mentre i frutti esportati sono spesso raccolti quando sono ancora acerbi e l'epidermide è ancora verde. Sebbene producano etilene durante la maturazione i frutti così raccolti non hanno lo stesso profumo e succosità dei frutti freschi.

Il frutto è ovoidale, ha la polpa gialla/arancio, compatta, molto profumata e gustosa. La sua buccia può assumere diverse tonalità: verde, giallo, rosso, oppure un miscuglio di questi colori. Il peso di un mango può arrivare anche ad 1 kilogrammo, ma solitamente in commercio è possibile trovarli da 300-500 grammi. In genere, quelli commerciati sono lunghi circa 10–14 cm. Se ne distinguono due tipi: la filippina-indonesiana, detta anche Camboya, con forma più allungata e colore giallo-verde, più dolce e meno fibrosa; e l'indiana, detta anche Mulgoba, con forma più grossa e compatta di colore variabile dal verde al rosso fino al viola: quest'ultima è la più presente nei mercati europei, in quanto più serbevole. I frutti di piante selvatiche, non appartenenti ad alcuna cultivar, sono di qualità inferiore e possono presentare vari difetti: dal forte odore di trementina, all'elevata fibrosità, alla mancanza di dolcezza. Nei casi in cui si lasci un frutto di mango maturare troppo, si noterà uno sbiadimento della cromatura interiore: diventerà color bianco sporco, oppure caffelatte, e non potrà vantare alcun sapore significativo.
Il nocciolo occupa buona parte del frutto, ha una forma ovaloide ed ha una lunghezza di 7-8 centimetri. Esso può essere ricoperto da fibre che non permettono di separarlo facilmente dal frutto. Frutti maturi e con la buccia hanno un odore resinoso e caratteristico.

Il mango maturo è generalmente dolce, anche se ovviamente il sapore e la consistenza variano a seconda delle cultivar. Alcune hanno una consistenza morbida e polposa, simile a quella di una prugna molto matura; altre invece hanno una consistenza più solida, come quella di un melone o di un avocado.
Per il consumo di frutti acerbi cotti la buccia del mango può essere lasciata sul frutto, anche se c'è la possibilità che causi dermatiti alle labbra, ai denti e alle gengive nei soggetti sensibili. Nei frutti maturi che debbono essere consumati freschi la buccia può essere dura e amara, per cui generalmente non viene consumata, sebbene in alcune varietà ne sia possibile il consumo.

Il frutto, se acquistato acerbo, si conserva a temperatura ambiente fino a quando non diviene morbido e poi lo si consuma al naturale privandolo della buccia e tagliando due grosse fette in corrispondenza del nocciolo. Il taglio a porcospino è un altro modo in cui viene consumato.

I mango sono ampiamente usati in cucina. Il mango acerbo insieme ad altri ingredienti forma il chutney, condimento molto diffuso in India per accompagnare la carne, oppure può essere mangiato crudo con sale o salsa di soia. Una bibita estiva rinfrescante chiamata panna o panha viene fatta con i mango. Sebbene i frutti maturi vengano principalmente mangiati freschi, essi vengono usati anche in alcune ricette. L'Aamras è una bibita popolare fatta con mango e zucchero o latte, ed è bevuta accompagnata col pane. I mango maturi vengono anche spesso tagliati in fette sottili, disidratati, ripiegati e tagliati di nuovo. Le barrette ottenute sono simili alle barrette di guava disponibili in alcuni paesi. Il frutto maturo è anche aggiunto a prodotti come il muesli. I mango possono anche essere usati per fare succhi, nettari, e per dare sapore o essere il principale ingrediente in sorbetti e gelati. I mango acerbi possono essere mangiati col bagoong (specialmente nelle Filippine), salsa di pesce od un pizzico di sale.



Il mango è ricco di nutrienti. La polpa del frutto è ricca in fibre, vitamina C, polifenoli e carotenoidi. Le vitamine antiossidanti A, C ed E sono presenti in una porzione da 165 grammi per il 25%, 76% e 9% della dose giornaliera consigliata. La vitamina B6, la vitamina K, le altre vitamine del gruppo B ed altri nutrienti come il potassio, il rame, e 17 amminoacidi sono a un buon livello. La polpa e la buccia del mango contengono altri nutrienti, come i pigmenti antiossidanti - carotenoidi e polifenoli - e omega-3 e acidi grassi 6-polinsaturi.
La buccia del mango contiene pigmenti che possono avere proprietà antiossidanti, inclusi carotenoidi, come la provitamina A, il beta-carotene, la luteina e l'alfa-carotene, polifenoli, come la quercetina, il kaempferolo, l'acido gallico, l'acido caffeico, catechine, tannini e lo xantone che si trova solo nel mango, la mangiferina, ognuno dei quali può contrastare l'azione dei radicali liberi in vari processi patologici, come è dimostrato dalla ricerca. Il contenuto in nutrienti e sostanze chimiche sembra variare a seconda delle cultivar. Fino a 25 diversi carotenoidi sono stati isolati dalla polpa del mango, il più presente dei quali è il beta-carotene, il quale è il responsabile della pigmentazione giallo-arancio dei frutti di molte specie di mango. La buccia e le foglie hanno anch'esse un significativo contenuto in polifenoli, inclusi gli xantoni, la mangiferina e l'acido gallico. Il triterpene del mango, il lupeolo in laboratorio è un efficace inibitore del cancro alla prostata e alla pelle. Un estratto di corteccia proveniente dai rami del mango, chiamato Vimang, isolato da scienziati cubani, contiene numerosi polifenoli con proprietà antiossidanti in vitro.
Il pigmento euxantina, noto anche come giallo indiano, è generalmente ritenuto prodotto partendo dall'urina di bovini nutriti a foglie di mango; la pratica viene descritta come proibita nel 1908 a causa della malnutrizione del bestiame e forse anche avvelenamenti da urushiol. Questa supposta origine dell'euxantina appare appoggiarsi su un'unica fonte, probabilmente di tipo aneddotico, e i registri legali indiani non riportano il divieto di tale pratica.
Ricchissimo di acqua e tanti minerali, in particolar modo il calcio, il potassio, il fosforo, il sodio e il magnesio. A rendere il mango “il re del frutti” però, è tanto la presenza del lupeol (potente antiossidante) che delle vitamine A, B (presenti quasi tutte le vitamine del gruppo B, in particolare la B6), C, D, E, J (o colina) e vitamina K. L’alta presenza di fibre invece, rende il frutto mango perfetto per combattere la stitichezza e migliorare il transito intestinale. Sempre grazie a queste sostanze contrasta egregiamente anche la ritenzione idrica. Il betacarotene in esso contenuto lo rende ideale durante l’estate per stimolare la melanina, e apportare allo stesso tempo tutti i benefici nutritivi. Il mango resta tuttavia un frutto piuttosto calorico. Consideriamo infatti che per ogni 100 grammi di polpa, dobbiamo calcolare circa 55 Kcal. Se vi aggiungiamo l’elevato contenuto di zuccheri, possiamo dedurre che consumare mango in una dieta ipocalorica dimagrante può essere controproducente. Al contrario, il mango si rivela un’importante fonte di energia, specialmente per studiosi e sportivi. Il consumo regolare di mango viene consigliato dagli specialisti a coloro che soffrono di depressione e nervosismo, o comunque stanno passando un periodo particolarmente stressante. I suoi benefici quindi, si estendono alla sfera mentale, aiutando la persona a imboccare una strada di maggior serenità. Alcune ricerche hanno evidenziato che il mango è un frutto capace di preservare la salute del corpo, aiutandolo a prevenire alcune forme tumorali. Grazie al Lupeol, potente antiossidante, il mango sembra che riesca a contrastare le cellule cancerogene che colpiscono i polmoni, il seno, la prostata e il colon. Questi studi hanno sottilineato anche che il mango da solo non ha il potere di far guarire, ma aiuta a prevenire e supporta nel caso le terapie in corso soprattutto a livello mentale, aiutando la persona a trovare la giusta forza per lottare. Il Lupeol preserva anche la salute del muscolo cardiaco, migliorando l’intera circolazione sanguigna. Questa sostanza contenuta del mango gioca un ruolo importante anche nel rallentare il processo dell’invecchiamento, lotta sostenuta anche dalla vitamina C, la quale stimola la produzione di collagene. Grazie al mango quindi, è possibile avere un miglior ricambio cellulare. Non a caso questo frutto viene utilizzato anche in estetica per curare alcuni problemi. L’elevata presenza di vitamina A porta benefici ai denti, gli occhi e le mucose interne. Grazie alla vitamina C rafforza il sistema immunitario e aiuta il corpo ad assorbire ferro. Infine, consumare la polpa di mango di sera, prima di andare a letto, aiuta a contrastare l’insonnia e trovare il giusto riposo. Il mango viene utilizzato nel campo estetico per trattare efficacemente l’acne, la pelle secca e quella sensibile. Grazie alla preziosa vitamina B, gli impacchi di mango sui capelli aiutano a combattere secchezza e doppie punte. Un rimedio naturale a base di mango prevede l’utilizzo del suo nocciolo, provvisto ancora di una parte di polpa, da passare sulla pelle del viso effettuandovi anche un leggero massaggio. Le sostanze devono agire per almeno 5 minuti, così da purificare la pelle in profondità. Successivamente risciaquare con molta accuratezza. Chi soffre di pelle sensibile, secchezza o disidratazione, può optare per il burro di mango, il quale conserva in se tutte le vitamine e i minerali necessari. Questo buonissimo frutto ha diverse controindicazioni. L’elevata presenza di zuccheri ad esempio, non lo rende particolarmente indicato per i diabetici. Queste persone lo possono consumare ma solo in quantità ridotte e ovviamente, sotto parere del medico. Essendo ricco di fibre, il mango non deve essere consumato in quantità eccessive altrimenti le azioni benefiche lassative possono arrivare a provocare coliti e diarrea. In alcuni soggetti il mango maturo può avere alcuni effetti collaterali e irritanti, specialmente sulla lingua e le labbra.
Il mango è il frutto nazionale dell'India del Pakistan e delle Filippine.
Nell'induismo un frutto di mango perfettamente maturo è tenuto in mano da Ganesha come simbolo di perfezione. Le infiorescenze di mango sono anche usate nei riti della dea Saraswati.
Le foglie di mango sono anche usate per decorare le architravi e le porte durante i matrimonio e le celebrazione come il Ganesh Chaturthi. Motivi a forma di mango sono ampiamente diffusi in diversi stili indiani di tessitura.



Abbiamo creato un SITO
per Leggere Le Imago
Poni una Domanda
e Premi il Bottone il
Sito Scegliera' una Risposta a Random
Tra le Carte che Compongono il Mazzo
BUON DIVERTIMENTO
gratis

PER TABLET E PC

LE IMAGO
.

 ANCHE

PER CELLULARE


NON SI SCARICA NIENTE
TUTTO GRATIS


DOMANDA
CLIK
E
RISPOSTA

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.

.

ScambioBannerGratis

motori di ricerca