lunedì 16 maggio 2016

PANE CA'MEUSA



Il pani câ meusa, italianizzato come "pane con la milza", è un esempio di tradizione gastronomica palermitana nel campo del cosiddetto "cibo da strada".

La pronuncia corretta in palermitano sarebbe "pani c'a miévusa" con un allungamento della sillaba "ie".

Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una pagnotta morbida (vastella), superiormente spolverata di sesamo, che viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, soffritti a lungo nella sugna. Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso il panino si dice maritatu, ossia sposato, cioè accompagnato da qualcos'altro), con limone o pepe oppure semplice (schettu, ossia celibe, cioè solo).

Il meusaru si serve di un'attrezzatura tipica: una pentola inclinata, all'interno della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di milza e polmone che devono essere fritte solo al momento della vendita. Una forchetta con due denti serve per estrarre dall'olio le fettine fritte, che vanno scolate brevemente e inserite nella vastella, anch'essa calda, e per questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano all'avventore, in carta da pane o carta assorbente.

La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano in luoghi di mercato come la Vucciria o Ballarò. I più famosi sono l'Antica Focacceria San Francesco, che risale al 1834, il cui proprietario ha fatto della battaglia contro il pizzo una coraggiosa scelta di vita, denunciando i suoi estorsori mafiosi, L'Antica Focacceria di Porta Carbone, la famiglia Basile nel mercato della Vucciria, "Nni Franco u Vastiddaru" in corso Vittorio Emanuele (angolo piazza Marina), l'antico e caratteristico "Piddu Messina" nel corso Alberto Amedeo adiacente all'antico mercato del "Capo". Infine, più recente, Nino u ballerino in corso Finocchiaro Aprile (già corso Olivuzza).

A Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per strada anche il panino con panelle o crocchè (cazzille) o rascatura, la pizza-sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, il carcagnolo, la quarume, il polpo, l'aringa, e tutta una serie di pietanze da consumare in piedi: arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.

La comunità ebraica, presente Palermo fino al 1492, viveva all’interno di un proprio ghetto, ed era dedita a varie attività; alcuni erano abili nell’arte della macellazione ed esercitavano nei vari mattatoi della città.

L’allora macello cittadino delle carni era ubicato, e lì rimase sino al 1837, nella parte più bassa del Seralcadio, odierno Capo.

La macellazione e la vendita della carne avveniva attorno alla piazzetta detta dei caldumai, in pratica: venditori d’interiora.

I macellai non si facevano ricompensare in denaro, poiché la loro religione lo vietava. In cambio del lavoro di macellazione, a titolo di regalìa, trattenevano per sè le interiora dell’animale, escluso il fegato che era ritenuto molto pregiato.

Per ricavarne del denaro, inventarono una pietanza: dopo aver bollito, quindi sterilizzato le frattaglie, vendevano il prodotto ai "gentili" (cristiani) che lo mangiavano per strada e con le mani, (secondo una usanza trasmessa dai musulmani che mangiavano cibi senza l’uso di posate, riservando l’uso del coltello solo per il taglio e la frammentazione del cibo), unendo le frattaglie al pane e arricchendo il tutto con ricotta o formaggio.



U guastiddaru e/o u Cacciuttaru è colui che fa e vende “Guastedde“ con milza, polmone, ricotta e strutto.  Il nome  Guastella deriva dall’antico francone, il francese parlato dai normanni, “gastel”, che sta per panino rotondo o focaccia. Da quel termine venne il francese odierno “gateau”.

Quel morbido panino è passato alla storia gastronomica siciliana per la sua unione con questi straordinari ingredienti.

Non sappiamo chi fu, il personaggio a cui venne la geniale idea di creare con quelle un piatto per i cristiani che mettevano assieme la carne, ricotta, formaggio, strutto e grassi animali. Insomma quell’idea di mettere in mezzo a quella focaccina tutto ciò che era vietato a ebrei e musulmani ebbe un successo che dura ancora ai nostri giorni.

Fino ai primi del Novecento, questi “Guastiddari” erano in maggioranza ambulanti, portando sulla testa il fornellino e un cesto carico di focacce. Già, alla metà dell’Ottocento, nacquero alcuni locali dove si poteva gustare, oltre che “guastedde” anche “sfincioni” e tra questi vi è la storica Antica Focacceria San Francesco, aperta nel 1830 dagli Alajmo e che fu – e continua a essere – punto di ritrovo per molto personaggi illustri: da Garibaldi a Sciascia.

Il “Cacciottu” era un panino a forma di cappello basso di feltro allungato che in spagnolo si chiama “Cachuca” da cui l’etimo. Veniva chiamato anche “pani francisi” ed era parente stretto di un’altra specialità di pane scomparsa, chiamata “varvuzza”.

Questo panino si apriva da un lato per introdurvi caciocavallo e qualche pezzo di salsiccia secca “pasqualora”, poi si intingeva nello strutto bollente e infine, si riscaldava accanto al fuoco del fornellino portatile per pochi secondi in modo che il formaggio si trasformasse in crosta rendendo morbido e croccante il miserabile “cacciottu”. Era più economico della “Guastedda” e di solito era diffuso nei rioni più poveri e popolari della città come Kalsa, Albergheria e San Pietro. In quest’ultimo,infatti era proprio il piatto tipico delle festa dedicata all’apostolo Pietro che si svolgeva fino all’ultima guerra, nell’omonimo rione, del mandamento Castellamare, il 29 giugno, ma si consumava pure per il Festino.


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