L'allevamento intensivo è una pratica che si è diffusa nel XX secolo (in Italia soprattutto a partire dal secondo dopoguerra) allo scopo di soddisfare la crescente richiesta di prodotti di origine animale (in particolare carne, uova e latticini) abbattendone nel contempo i costi, in modo da rendere questa categoria di prodotti adatta al consumo di massa. Se la riduzione dei costi unitari e la possibilità di produrre su scala industriale erano inizialmente gli unici fattori a influire sulle modalità e le tecniche impiegate nell'allevamento intensivo, in seguito queste sono state sottoposte a un continuo processo di revisione in funzione di considerazioni come la tutela degli animali, l'igiene e la qualità dei prodotti, l'impatto ambientale e via dicendo. Di conseguenza, le caratteristiche dell'allevamento intensivo sono cambiate nell'arco del XX secolo, e possono presentare differenze anche notevoli fra diversi paesi. Importanti norme al riguardo sono state emanate dall'Unione europea a partire dagli anni novanta.
Negli allevamenti intensivi gli animali sono sottoposti a selezione individuale e sono perciò in grado di fornire elevate prestazioni produttive a cui corrispondono fabbisogni nutritivi in energia e proteine di maggior rilievo. I regimi dietetici e le razioni alimentari vedono perciò l'apporto di non trascurabili quantitativi di concentrati, i soli in grado di soddisfare tali fabbisogni in rapporto alla capacità di ingestione volontaria. La provenienza e la natura di tali concentrati è composita e varia notevolmente secondo il comparto produttivo, la fisiologia delle singole specie, il tipo produttivo della specie allevata e, infine, l'ordinamento produttivo dell'azienda. Oltre ai cereali e ai loro derivati, che rappresentano la base fondamentale dei concentrati, si fa largo ricorso ai sottoprodotti della trasformazione agroalimentare.
L'altissima concentrazione di animali negli allevamenti intensivi è la principale causa dell'insorgere periodico di svariate malattie rispetto a quanto accade nel caso di animali cresciuti in natura. In questi allevamenti l'uso di farmaci (per esempio antibiotici) è diffuso, sia per prevenire l'insorgere di epidemie, sia come stimolanti della crescita. Queste modalità d'uso degli antibiotici (basso dosaggio per lunghi periodi di tempo) può portare al diffondersi di nuove forme di batteri resistenti a tali medicinali. Il Center for Disease Control and Prevention statunitense stima che nel mondo, ogni anno, ci siano oltre 76 milioni di casi di malattie portate dal cibo da allevamento, e oltre 5000 morti.
In Italia, secondo i dati FAOSTAT, vengono allevati ogni anno 500 milioni di polli da carne. Circa l’80% viene allevato intensivamente, vale a dire in capannoni che possono contenere fino a 40.000 animali. Oggi la legge italiana, in linea con la normativa europea, consente di allevare a una densità massima di “33 chilogrammi di peso vivo a metro quadro”(15/16 polli per metro quadro), con la possibilità di richiedere deroghe per aumentare la densità fino a 39 o addirittura 42 chili per metro quadro (20/21 animali per metro quadro). Per ottenere una deroga, che può essere consentita con la procedura del “silenzio assenso”, è sufficiente installare un buon sistema di ventilazione e monitorare alcuni parametri ambientali.
La alte densità degli allevamenti rendono i polli spesso immunodepressi.
Anche la selezione genetica influisce pesantemente sul benessere dei polli. La maggioranza dei polli da carne è costituita da razze selezionate per crescere rapidamente in maniera innaturale: un pollo può raggiungere il peso adatto alla macellazione anche in 39 giorni. Ma questi animali sono destinati fin dalla nascita a una vita di sofferenze. La crescita abnorme, soprattutto nella zona del petto, causa problemi cardiorespiratori, deambulatori, zoppìe e anche la morte.
A densità così alte e in condizioni fisiche intrinsecamente debilitate, i polli sono molto spesso immunodepressi e si ammalano con facilità. In un capannone con decine di migliaia di animali è sufficiente che uno solo sviluppi una malattia perché tutto il gruppo debba essere trattato, o perché già ammalato o perché con ogni probabilità si ammalerebbe a breve.
Sebbene la sospensione di trattamenti farmacologici prima della macellazione garantisca che nella carne non vi siano residui di antibiotici, va però ricordato che il pericolo in questo caso è la selezione di batteri resistenti agli antibiotici che possono diffondersi a partire dagli allevamenti, in primis attraverso gli operatori degli allevamenti stessi. L’allarme su questo argomento è stato lanciato recentemente dagli specialisti della Simit secondo cui “In Italia sono stimati 5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni nosocomiali (dovuti ad antibioticoresistenza), con un costo annuo superiore a 100 milioni di euro”. Riguardo al consumo di antibiotici, in Italia l’uso in campo veterinario è in calo negli ultimi anni, ma il consumo italiano resta fra i più alti in Europa e la percentuale di antibiotici venduti destinati agli animali da allevamento in Italia è allarmante: si tratta del 71% di quelli venduti secondo i dati del rapporto ECDC/ EFSA/ EMA del 2015. Quello dell’uso eccessivo di antibiotici è solo uno degli effetti nefasti degli allevamenti intensivi che spingono gli animali al limite delle loro possibilità fisiologiche e provocano loro enormi sofferenze. Secondo la FAO,“ Sostenibilità significa assicurare i diritti e il benessere degli esseri umani senza esaurire o diminuire la capacità degli ecosistemi della terra di sostenere la vita, o a danno di altri esseri viventi”. Il problema vero non è l’uso di antibiotici in sé, ma l’allevamento intensivo, che minaccia la nostra salute, l’ambiente e la sostenibilità alimentare sul nostro pianeta.
L’entità dell’utilizzo di antibiotico nelle nostre produzioni animali è stato di gran lunga sottostimato, perché sconosciuto fino a pochissimi anni fa. Un recente studio della Princeton University ha puntato il dito contro la Germania come maggior utilizzatore in Europa, facendo riferimento a dati del 2010, quando ancora non erano disponibili dati comparabili per l’Italia. Secondo i dati aggregati dalle agenzie europee, invece, già nel 2012 eravamo di poco secondi a Germania e Spagna per utilizzo di antibiotici negli allevamenti, con 1534,3 tonnellate utilizzate annualmente, con il primato negativo assoluto per quanto riguarda l’utilizzo in relazione alla produzione: 341 mg di antibiotici utilizzati per ogni chilo di massa prodotta, contro Francia e Germania ferme rispettivamente a 99 mg e 205 mg, e una media europea di 140 mg. Meno della metà rispetto al nostro dato. Le vie di trasferimento – «A livello di allevamento le resistenze si possono generare sia in batteri che possono direttamente essere pericolosi per l’uomo, sia in batteri che possono trasferire ad altri batteri geni di resistenza», afferma Luca Busani, direttore del reparto di Epidemiologia veterinaria e valutazione del rischio dell’Istituto superiore di sanità. «Un batterio può andare più o meno direttamente da un allevamento ad una persona, sia per contatto diretto sia in maniera meno diretta, cioè attraverso gli alimenti. Quello che è nell’intestino degli animali può passare lungo la catena di macellazione, di manipolazione, di produzione, e quindi raggiungere l’uomo».
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