Il primo cibo inscatolato risale al 1812 in seguito agli studi di Nicolas Appert; presentava numerosi problemi, tra cui la mancanza di metodi autonomi di apertura. Solo nel 1855 fu inventato l'apriscatole, e nel 1866 le scatole furono dotate di chiave. Nel 1876 si ebbe la prima esportazione intercontinentale di carne in scatola, dall'Argentina alla Francia.
In Italia l'invenzione della carne in scatola e del minestrone per le truppe si deve al colonnello don Ettore Chiarizia, che brevettò nel 1929 la produzione di prodotti alimentari scatolati per le truppe, tra cui la carne in scatola, il minestrone e la minestra di pasta e lenticchie. Tali prodotti, pertanto, costituirono un notevole passo verso la soluzione dell'importante e delicato problema di vettovagliamento delle truppe in campagna e specialmente per il fatto che consentivano la distribuzione di un rancio caldo e sostanzialmente gradito dalle truppe che si trovavano in località particolarmente disagiate, dove non era possibile o agevole confezionare o far giungere in buone condizioni il rancio caldo normale.
La carne in scatola è un prodotto alimentare di tipo industriale, caratterizzato da una spiccata praticità d'impiego, dal completo isolamento con l'ambiente di stoccaggio e da una lunga durata del prodotto.
La carne più usata è quella bovina, di cui si impiegano i tagli più adatti. Si utilizzano soprattutto le carni di vacche a fine carriera, in quanto altre tipologie di animali (vitelloni, manze, ecc.) vengono meglio remunerate nella vendita diretta. I pezzi sono prima sottoposti a una parziale lessatura, poi sono suddivisi a tocchetti e sistemati nei barattoli di lamiera stagnata, che vengono chiusi ermeticamente (aggraffatura con giunto di gomma). Le scatole così confezionate sono poi sterilizzate in autoclave, dove restano per circa un'ora alla temperatura di 120 °C.
La carne in scatola è uno dei prodotti meno genuini, in quanto in questa categoria abbonda l’uso di conservanti potenzialmente pericolosi. L’ingrediente sospetto delle carni in scatola è, infatti, il nitrito di sodio, conservante principale oltre che della carne, degli insaccati in genere.
Nonostante la praticità (in particolar modo in estate), la carne in scatola è quindi un prodotto da evitare o da consumare sporadicamente, non certo come alimento abituale (è importante distinguere fra nitriti e nitrati e capire come comportarsi di fronte a questi prodotti industriali di dubbia qualità) sfruttando magari la sua ipocaloricità.
Come se non bastasse, per cercare di dare appetibilità al prodotto, molte marche usano il classico esaltatore del sapore, il glutammato monosodico, il cui consumo però andrebbe limitato, soprattutto da coloro che devono abbassare la quota di sodio nella dieta.
Recentemente sono state introdotte sul mercato carni in scatola esplicitamente senza glutammato e con carni italiane; lodevole passo, ma la presenza dei nitriti non permette ancora di ritenere il prodotto accettabile.
Secondo la dieta italiana andrebbe evitato il consumo di carne in scatola contenente nitriti o glutammato di sodio. Prodotti conservati con nitrati e contemporaneamente acido ascorbico, ma senza glutammato sono ammessi per un uso saltuario. L’assenza di etichetta nutrizionale è quindi solo un dettaglio, visto l’uso non frequente di questo tipo di prodotti.
Le principali marche di carne in scatola si contendono il mercato italiano essenzialmente con una martellante pubblicità: se si confrontano gli ingredienti si scopre, infatti, che questi sono pressoché identici (brodo vegetale con non precisati aromi e/o spezie o ortaggi), miele, marsala, sale. L’addensante usato è generalmente sempre lo stesso, la farina di semi di carrube, il gelificante è l’agar agar, ottenuto da alghe marine. Per quanto riguarda la carne bovina impiegata, la provenienza dei capi è in quasi tutti i casi dichiarata e/o tracciabile.
Anche la percentuale di carne sull’intero prodotto è, in tutte le ricette, praticamente equivalente (intorno al 40%). Quasi tutti i prodotti contengono nitrati (senza il protettivo acido ascorbico) e soprattutto nitriti e, in alcuni casi, anche glutammato di sodio. Patetico è poi il tentativo di nascondere questi gravi difetti con il pregio nutrizionistico che la carne in scatola è povera di grassi (si va dall’1 al 2%).
Nessun pregio hanno anche i tentativi di valorizzare la carne, decisamente penalizzata dalla presenza di conservanti. Accanto alla proposta “storica” della carne bovina, sono comparsi sul mercato anche alcuni prodotti a base di pollo.
Tutti i cibi in scatola sia il principale punto fermo della tavola degli italiani, se è vero che una famiglia su due la consuma abitualmente per la sua praticità, sempre pronta e si conserva a lungo (anche 4 o 5 anni).
Rispetto alla carne fresca, quella in scatola ha un modesto apporto energetico perché è bollita e sgrassata: ecco perché viene spesso inserita nel menu di chi segue una regime ipocalorico.
Di solito si utilizza il muscolo del bovino, lessato e inscatolato assieme alla gelatina vegetale o animale. A volte vengono aggiunte altre parti dell’animale, come la lingua, che però contribuisce ad aumentare il contenuto di grassi. Per questo, prima di acquistare una confezione, è sempre meglio dare un’occhiata alle informazioni sull’etichetta.
La carne in scatola contiene una discreta quantità di sale, circa un quarto della dose massima raccomandata ogni giorno: per questo non dovrebbe far parte della dieta di chi soffre di ipertensione oppure del menu di chi combatte la ritenzione idrica. E ancora: trattandosi di carne, non bisogna esagerare perché è appurato, ormai, che mangiare troppa carne rossa espone a seri rischi di salute.
A volte i prodotti conservati e sottovuoto possono presentare sorprese e lasciarci dubbiosi. Verificate sempre che all’interno della scatola non vi siano macchie di ruggine e che la confezione non sia deformata o gonfia. Sono chiari segni di cattiva conservazione del prodotto.
Una gelatina troppo liquida o che emana un cattivo odore è segno di alterazione dell’alimento.
Se sulla carne trovate piccoli grumi bianchi, scartateli con la punta di un coltello, ma non preoccupatevi: sono solo depositi di grasso, da evitare solo per problemi di linea.
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